Dalla Redazione
Minimarket nella Capitale? Si parla di un fenomeno in forte ascesa, con un trend di crescita cinque volte superiore alla media del settore: a Roma oggi sono oltre 2.500 le drogherie e i fruttivendoli gestiti da extracomunitari, principalmente bengalesi ed egiziani. Un’indagine realizzata di recente dall’associazione Terra! analizza le ragioni di questo boom commerciale, che ha mutato il volto dei cosiddetti negozi di vicinato. Autori del rapporto dal titolo “Il (povero) diavolo nascosto nel dettaglio” sono i giornalisti freelance Maria Panariello e Maurizio Franco, vincitori insieme a Leonardo Filippi del premio Morrione per “Le catene della distribuzione”.
Secondo i dati della Camera di Commercio di Roma, come si legge nel rapporto – ripreso anche dal Corriere di Roma – gli esercizi non specializzati con prevalenza di prodotti alimentari e bevande sono passati da 1.432 nel 2016 a 1.622 nel 2017; e quelli specializzati in frutta e verdura da 874 a 918.
Il nome dell’indagine si rifà al fatto che non solo questi minimarket – o “banglamarket”, come sono stati ribattezzati – sono gestiti da immigrati più propensi ad affrontare turni di lavoro lunghi e margini di guadagno risicati, ma servono anche una clientela sempre più precaria, che ha mutato le sue abitudini di consumo e “il cui tempo libero è compromesso soprattutto al termine della giornata lavorativa”, si legge nel rapporto.
Per consumatori che hanno bisogno di tutto e a qualunque, questi negozi di vicinato sono dunque la soluzione ideale (e non solo a Roma: anche a Bologna, ad esempio, pullulano i fruttivendoli e le piccole drogherie gestite da pakistani e bengalesi). E la grande distribuzione, che ancora commercializza oltre il 70% dell’ortofrutta consumata, si è dovuta adeguare, rilanciando con il format h24.
Se gli esercizi di ortofrutta gestiti da italiani sono ancora la maggioranza, a Roma, sempre secondo i dati della Camera di Commercio nell’ultimo anno hanno chiuso i battenti 33 frutterie “autocotone” e altrettante in provincia, sempre secondo la Camera di commercio. Il “problema” di questi negozi – che spesso sono allo stesso tempo abitazione, luogo di lavoro full time e centri di aggregazione – non è solo la concorrenza alle attività commerciali locali e alla Gdo. In molti casi vengono venduti alcolici non stop, specie di sera e di notte. Inoltre nei meandri di risparmi e finanziamenti (ci vogliono 15 mila euro in fase di avvio dell’attività” si anniderebbero forme di condizionamento illegale, sottolinea il rapporto di Terra!
Il 90% del prodotto fresco presente nei banglamarket arriva da Guidonia, il 10% da Fondi. Si tratta normalmente di prodotto medio a un prezzo concorrenziale, sottolinea un altro articolo di Repubblica Roma. Per le imprese del Bangladesh gli acquisti sono collettivi: c’è un indotto fatto di autotrasportatori che smistano ai punti vendita, incassando da ognuno 5 euro.
Anche gli egiziani comprano merce da Guidonia, tendenzialmente con forniture singole, ma spesso con l’intermediazione dei grossisti della periferia. L’invenduto, come per i bengalesi, si deteriora sul banco, cala di prezzo e qualità perché non può finire in frigorifero. “Le limitazioni, legate a questioni di decoro, rischiano comunque di tradursi in un boomerang”, nota il rapporto.
Ora il nuovo regolamento comunale ha dato l’alt ai minimarket nel centro storico e a San Lorenzo. Tuttavia, da sola, questa misura forse non è sufficiente a contenere la precarizzazione sempre più spinta dei commercianti “sopravvissuti” alla concorrenza straniera, che va di pari passo con un calo della qualità generalizzato, necessario per mantenere alti i livelli di concorrenza.
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