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                      Kiwi, Salvi: bene la Corea, ora lavoriamo per aprire Giappone e Messico

                      Kiwifruit
                      Durante il convegno sul kiwi che ha preceduto la fiera Macfrut, martedì 24 settembre, il presidente di FruitImprese Marco Salvi ha delineato l’evoluzione delle esportazioni per il frutto di origine cinese sottolineando come l’80 per cento della produzione italiana venga destinata ai mercati esteri. “Bene – ha dichiarato – la recente apertura del mercato coreano, ora lavoriamo per superare le barriere fitosanitarie che ci impediscono di arrivare in Giappone e Messico”

                      di Eugenio Felice

                      KiwifruitSi apre oggi la fiera Macfrut, la più antica fiera di settore d’Europa, l’unica dedicata all’ortofrutta che si tiene in Italia. Il convegno di pre-apertura è stato di altissimo profilo, dedicato al kiwi e al problema della batteriosi, con relatori del mondo scientifico e commerciale, di ogni parte del mondo. Dopo una interessante relazione di Elisa Macchi, neo direttore del CSO di Ferrara, sulle previsioni di produzione per quest’anno, sostanzialmente in linea con l’anno passato, e un’analisi dell’impatto economico della batteriosi sui costi di produzione, è stato chiamato Marco Salvi, presidente di FruitImprese, l’associazione degli esportotori e importatori italiani di ortofrutta, a delinare la situazione di mercato. “Il kiwi – ha esordito – è un prodotto virtuoso, considerando che su una produzione annuale di circa 400 mila tonnelate l’Italia ne esporta oltre il 75 per cento, con una bilancia commerciale import-export positiva. Raggiungiamo oggi 80 Paesi nel mondo”.

                      Negli ultimi 10 anni è calato l’export verso l’Europa, dall’82 al 68 per cento, mentre è cresciuto il Nord America dal 5 all’8 per cento, l’Estremo Oriente dal 2 al 4 per cento, l’Europa extra Ue-28 dal 5 al 7 per cento, il Centro e Sud America dal 3 al 5 per cento, il Medio Oriente dall’1 al 3 per cento e sono stati aperti nuovi mercati come l’Oceania, che oggi vale il 2 per cento e L’Africa che vale la stessa percentuale. Guardando ai Paesi che importano più kiwi made in Italy, al primo posto c’è la Germania con 56 mila tonnellate nella campagna 2012-13 e trend in flessione, segue la Spagna con 40 mila tonnellate (trend stabile), la Francia con 20 mila tonnellate (trend in flessione), gli Stati Uniti con 20 mila tonnellate (trend in crescita), la Polonia con 18 mila tonnellate (trend in flessione), l’Olanda con 15 mila tonnellate (trend in crescita), il Regno Unito con 14 mila tonnellate (trend in flessione), la Russia con 12 mila tonnellate (trend in flessione), il Belgio con 10 mila tonnellate (trend in aumento) e il Brasile con poco meno di 10 mila tonnellate (trend in flessione). Queste 10 destinazioni rappresentano il 70 per cento dell’export complessivo.

                      “Dobbiamo lavorare sulla qualità – ha precisato Salvi – evitando la raccolta anticipata che ha ridotto la reputazione dei nostri kiwi sui mercati mondiali. Dobbiamo lavorare sulla strategia, facendo sistema nei nuovi mercati. È finito il tempo degli individualismi. Abbiamo aperto il mercato cinese nel 2009, primo Paese europeo a riuscire in questa impresa e nella passata campagna abbiamo inviato 4 mila tonnellate di prodotto. Abbiamo aperto la Corea, dove nel 2012 tre operatori italiani hanno inviato i primi 25 container. Non dobbiamo però avere troppe aspettative da questi mercati: sono produttori di kiwi e il prodotto di origine Nuova Zelanda è già ben posizionato. La finestra per il prodotto italiano non è ampia. I mercati su cui la diplomazia deve concentrare ora gli sforzi sono il Giappone e il Messico, 130 milioni di abitanti il primo, 120 il secondo, entrambi consumatori di kiwi, non hanno prodotto locale e pagano un premium price per il kiwi di importazione”. A margine della relazione Salvi ha anche indicato chi è oggi il vero competitor dell’Italia: la Grecia, che oggi, dopo anni di investimenti, ha 6.500 ettari in produzione per un potenziale produttivo pari a quasi 200 mila tonnellate e costi di produzione più bassi rispetto a quelli italiani.

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