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                      L’etichetta carbon footprint piace sempre di più (e cambia il prezzo degli alimenti)

                      Le etichette alimentari e la tanto discussa etichetta nutri-score possono informare il consumatore sulla composizione di un alimento e di come questo possa impattare sulla sua dieta e salute, tanto da poter far virare gli acquisti su prodotti indicati come più salutari. Ma cosa sappiamo, invece, di quanto un prodotto alimentare, sia esso una mela o un hamburger vegetale, possa essere più o meno “buono” per l’ambiente? Ad oggi non è così facile da quantificare, anche se stanno aumentando i marchi di prodotti alimentari che etichettano i loro prodotti in base al loro impatto sul clima e la loro carbon footprint. Il marchio svedese Felix ne è un esempio, tanto da aver dato ai propri prodotti un prezzo più o meno alto in base alla loro impronta di carbonio generata. Nata come un’azione di marketing limitata nel tempo, il concetto si è poi evoluto

                      Dalla Redazione

                      carbon footprint

                      Ben noto è il dibattito sulla famosa etichetta nutri score e su quanto possa più o meno essere attendibile. Una sorta di semaforo alimentare che promuove o mette in guardia sull’impatto di un prodotto sulla nostra salute alimentare.  Forse, un po’ meno noto è invece l’impatto di un prodotto alimentare sul clima. Se infatti stiamo diventando sempre più attenti alla salubrità e agli ingredienti degli alimenti che acquistiamo, forse lo siamo un po’ meno sull’impatto in termini ambientali e di emissioni di CO2 di questi alimenti (la famosa carbon footprint). In effetti, in termini di impatto climatico, la produzione alimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra nel mondo. Ma nonostante la maggiore consapevolezza dei consumatori e il desiderio di fare scelte migliori, non sempre è così facile sapere quali sono i prodotti a minor impatto ambientale.

                      Su queste basi sempre più aziende alimentari e insegne della GDO stanno muovendo i primi passi verso la quantificazione dell’impatto in termini di carbon footprint dei prodotti alimentari: dalla pizza surgelata a un kg di mele. Ne è un esempio il marchio svedese di generi alimentari Felix, di proprietà di Orkla Foods, che a ottobre ha aperto “The Climate Store”: un temporary shop a Stoccolma nel quale i clienti pagavano i prodotti in base alle loro emissioni di carbonio. Di fatto tutto gli articoli in vendita presentavano un prezzo basato sulla loro impronta di carbonio. Più alte erano le loro emissioni, più alto era il prezzo. L’azienda ha spiegato che per dimezzare il proprio impatto sul clima, ogni cliente doveva rispettare un budget settimanale di 18,9 chilogrammi di equivalenti di biossido di carbonio. Usando una moneta “basata sul clima”, Felix sostiene – riporta Newsfood Magazine – di mettere nero su bianco il vero costo del cibo. Infatti, l’idea alla base era quella di dimostrare quanto sia facile per i clienti compiere scelte rispettose del clima e in generale dell’ambiente quando nell’etichetta dei prodotti le informazioni sulla loro carbon footprint sono esposte in modo chiaro.

                      carbon footprint

                      esempio di “etichetta climatica”. Il bollino verde indica i prodotti dalla bassa carbon footprint

                      Mentre il temporary shop altro non era che una un’iniziativa di marketing, limitata nel tempo e volta a far aumentare la consapevolezza, Felix – riporta un articolo di Cnn Business – ha poi deciso di presentare sul suo sito web i suoi prodotti associati alle emissioni di gas serra generate per produrli: dalla coltivazione degli ingredienti al prodotto finito. Ad esempio, ai prodotti viene conferita un’etichetta di “bassa impronta climatica” se sottostanno a una serie di caratteristiche. Il responsabile marketing di Felix, Thomas Sjöberg sottolinea quanto sia importante che l’etichetta sia di facile comprensione. Un sondaggio commissionato dal Carbon Trust, che certifica l’impronta di carbonio di vari prodotti, ha mostrato come due terzi dei consumatori in Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti siano a favore dell’etichettatura dell’impronta di carbonio dei prodotti.

                      Nessun governo ha ancora reso l’etichettatura un requisito legale, fa sapere la Carbon Trust. Tuttavia, le etichette climatiche stanno iniziando a prendere sempre più piede. Ne è un esempio Quorn, marchio di sostituti della carne, che ha introdotto all’inizio di quest’anno etichette climatiche per il 60% del suo volume di prodotti. Anche Unilever (UL) ha recentemente stabilito un piano per comunicare l’impronta di carbonio di ogni prodotto che vende.

                      Certo è che valutare la reale impronta di carbonio di un alimento non è facile, quindi molte aziende hanno avviato delle collaborazioni con delle piattaforme specializzate capaci di analizzare una moltitudine di dati utilizzando complessi strumenti di calcolo per ricavare le emissioni lungo l’intera catena di produzione.

                      Ad esempio Oatly calcola l’impronta delle sue bevande a base di avena – dai processi agricoli fino all’arrivo del prodotto nei negozi di alimentari- con l’aiuto di CarbonCloud, una startup nata dalla ricerca della Chalmers university of technology, in Svezia. “Abbiamo sviluppato una piattaforma web – spiega David Bryngelsson, ceo di CarbonCloud – che permette ai produttori di generi alimentari di eseguire valutazioni climatiche dettagliate senza essere esperti in matematica o scienza”. Aziende come Oatly inseriscono quindi informazioni sui loro ingredienti, l’uso di energia, la produzione di rifiuti e come i prodotti vengono spediti, e lo strumento web di CarbonCloud fa tutto il resto. Oltre a usare le informazioni per etichettare di conseguenza i loro prodotti, le aziende possono anche scoprire come il loro impatto sul clima può cambiare se cambiassero i fornitori o l’energia rinnovabile, per esempio.

                      Al momento l’industria alimentare non ha un approccio standardizzato per calcolare le cifre esatte di anidride carbonica generata, ma Sjöberg sostiene che la cosa più importante è dare ai consumatori le informazioni che sono attualmente disponibili. “In futuro – sostiene -, speriamo di riuscire a creare un terreno comune per il calcolo dell’anidride carbonica generata e per la realizzazione delle etichette per i prodotti alimentari. Per ora però va bene così: il clima non può aspettare”.

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