L’INFORMAZIONE INDIPENDENTE PER PROFESSIONISTI E APPASSIONATI DI ORTOFRUTTA
                      L'INFORMAZIONE PROFESSIONALE PER IL TRADE ORTOFRUTTICOLO
                      L’INFORMAZIONE INDIPENDENTE PER PROFESSIONISTI E APPASSIONATI DI ORTOFRUTTA

                      Private label, la promessa e le “tre C” secondo Coop e Carrefour

                      Cosa significa fare marca in ortofrutta? Se n’è parlato al webinar di Myfruit insieme a Claudio Mazzini, responsabile freschissimi di Coop Italia, e Angelo Arrigoni, brand manager della linea Filiera Qualità e responsabile del prodotto a marchio di Carrefour, che hanno raccontato la storia delle private label delle due insegne e quali sono oggi le sfide che si presentano sul mercato per l’affermazione di un brand. La promessa è fondamentale, come ha sottolineato Salvo Garipoli, direttore di SG Marketing

                      di Carlotta Benini

                      private label webinar Myfruit

                      Da sinistra Angelo Arrigoni e Claudio Mazzini

                      Cosa occorre per fare un brand, in ortofrutta ma non solo? Ci sono tre imprescindibili elementi di base: chiarezza, coerenza e continuità. La “regola delle tre C” insomma, come l’ha battezzata Angelo Arrigoni, brand manager della linea Filiera Qualità e responsabile del prodotto a marchio di Carrefour, che oggi ha partecipato al webinar “Il valore della marca in ortofrutta – Strategie e consigli per l’uso dalla distribuzione alla produzione” organizzato da Myfruit. Durante l’evento online, moderato da Raffaella Quadretti, si è parlato anche di promessa, ovvero “l’essenza del marchio”, altro concetto di base che si lega alle cosiddette tre C, con Salvo Garipoli, direttore di SG Marketing. Claudio Mazzini, responsabile freschissimi di Coop Italia, ha introdotto invece il concetto di tempo, altro elemento fondamentale per l’affermazione di un brand. “Ci vogliono 20 anni per fare una marca – dice -, non ci si può solo affidare all’inizio all’emozione di creare un nuovo marchio, bisogna anche sostenerlo nel tempo. Con coerenza, tornando ai concetti chiave già enunciati. E questo è un processo che richiede molto tempo”.

                      Coop, come si è evoluta la private label

                      “Sono entrato in Coop Italia nell’agosto del 1989 – ha esordito Mazzini -. Allora c’erano i Prodotti con amore, un marchio molto orientato al tema della sicurezza alimentare, in un momento storico in cui si parlava della cosiddetta mela di Biancaneve e la produzione integrata era ancora ina cosa da pionieri. La MDD dunque parlava di rassicurazione e di garanzia. Negli anni Duemila, poi, si è iniziato a lavorare sulle segmentazioni, affiancando a questo prodotto il marchio Coop, che poi ha preso il sopravvento e a cui si sono via via affiancati nuovi brand per i vari segmenti, da Solidal per l’equosolidale a Vivi Verde per il biologico. Arrivando al passato più recente, essere marca – e non a marchio – significa avere un’offerta specifica che consenta di dare una risposta a tutti i tipi di consumatore, usando tutto l’articolato possibile”.

                      Oggi il core è la linea Origine, che parla di sicurezza, ma anche di giusto rapporto qualità prezzo. Fior Fiore rappresenta invece l’eccellenza gastronomica e negli ultimi anni (dal 2019 ad oggi, ndr) ha raggiunto lo stesso fatturato del marchio Origine, rivela Mazzini, quindi ha più che raddoppiato la sua quota, mentre al contrario si è dimezzato il biologico. “Per l’Italia, campione del bio in Europa, è un problema su cui riflettere”, dice. Infine ci sono Gli Spesotti, la new entry nella private label di Coop, che rappresenta i prodotti entry level: anche questi crescono, parallelamente al prodotto premium Fior Fiore.

                      Cosa ci dicono le ultime tendenze rilevate da Coop? Che il consumatore oggi non riconosce più al biologico quel plus valore che giustifica un prezzo maggiore, ma è comunque disposto a spendere di più per un prodotto alto di gamma, specie se parliamo di referenze da cui ci si aspetta una rassicurazione qualitativa. “Prendiamo l’uva, ad esempio, le fragole o le ciliegie: o sono buonissime o non le compro – spiega il responsabile freschissimi di Coop -. Mentre per delle noci o lenticchie, per fare un altro esempio, il consumatore si accontenta anche di un prodotto che soddisfi la richiesta di base”. Questo in ortofrutta, dove la private label di Coop ha un’incidenza di poco superiore al 30%.

                      Carrefour e la personificazione della MDD

                      La nascita della MDD di Carrefour avviene secondo un processo inverso, se vogliamo, rispetto alla creazione di un brand. “Diversi decenni fa Carrefour si rese famosa per avere tentato, tra i primi in GDO, a creare una propria linea di prodotti – racconta Angelo Arrigoni, brand manager della linea Filiera Qualità e responsabile del prodotto a marchio di Carrefour Italia -. Nacquero così i Produits Libres, letteralmente i prodotti liberi da marchio, per questo riconoscibili”. Un’idea pionieristica, antesignana, se vogliamo, di quella che è oggi la marca del distributore nell’era dell’inflazione.  “Senza nome, altrettanto buoni e meno costosi” era lo slogan dei Produits Libres, costavano dal 20 al 30% in meno perché venivano ordinati direttamente dal gruppo, con meno intermediari e con un imballaggio ridotto al minimo. Era il 1976 e la Francia era reduce dagli effetti del suo primo shock petrolifero, che nel triennio aveva portato i consumatori a spendere sempre di meno.

                      Lo sviluppo della private label di Carrefour segue in sostanza gli stessi principi di quella di Coop: si parte dai settori merceologici con il giro d’affari più importante e offrendo una qualità generica, per accontentare una fetta di mercato ampia. Poi via via si targettizza sempre di più il consumatore e si creano marchi sempre più segmentati: nascono così il biologico, il prodotto di primo prezzo, le linee specializzate dedicate a determinate categorie merceologiche. “Oggi il lavoro della marca è ancora più sofisticato – dice Arrigoni -. Se penso alla MDD immagino una vera e propria persona, che parla, dialoga, ascolta e risponde al consumatore. E per conquistare la sua fiducia, il suo amore e la sua stima, deve sviluppare un processo molto coerente e molto chiaro, sempre rispondente alle esigenze del cliente. Personificazione del marchio, dunque: questa la chiave per creare nuovi brand di successo. Perchè “anche il marchio deve sviluppare un profilo personale, etico, valoriale e diventare un compagno di vita”.

                      La linea Filiera Qualità oggi costituisce l’asse portante dell’assortimento dei reparti dei freschissimi di Carrefour: la sua offerta si basa su prodotti in cui si abbina un alto profilo agroecologico e rispettoso del benessere animale con un price positioning cuore di mercato e mainstream, quindi alla portata di tutti. Poi c’è Terre d’Italia, il marchio del prodotto tipico regionale, anche di nicchia, “che in ortofrutta è andato a occupare quegli spazi vuoti in termini di brand determinati dalle piccole dimensioni della produzione”, spiega Arrigoni. Oltre a questi, la MDD si compone anche delle linee Carrefour Bio, il Mercato e Selection.

                      Dall’arrivo di Alexadre Bompard al timone del colosso francese della Gdo, l’insegna si è posta l’ambizioso obiettivo di arrivare a una quota del 40% di MDD nel comparto food entro il 2025. La transizione alimentare è l’altro obiettivo e guida tutte le politiche di marca. “La volontà di Carrefour è quella fare a prezzi molto democratici prodotti di qualità, ottenuti nel rispetto dell’ambiente e degli animali, questo attraverso la MDD – Filiera Qualità è il portabandiera di questa strategia – ma anche stringendo partnership con i fornitori”, dice Arrigoni.  Oltre al tema del controllo, nel marchio oggi si sono aggiunti altri valori e asset come la riduzione dei pesticidi, la lotta integrata, la buccia edibile. “Dal 2024 – conclude il responsabile del prodotto a marchio di Carrefour – tutti i nostri prodotti Filiera Qualità saranno anche ‘bee friendly’, ovvero coltivati senza uso di sostanze che possono avere un’interferenza negativa sulla vita delle api”.

                      Comunicazione: e qui casca l’asino

                      Concludendo, le tre C fanno parte della promessa, “che va fatta, va fatta arrivare e va fatta vivere quotidianamente”. “Il nostro settore – dice Salvo Garipoli – da questo punto di vista deve ancora crescere. L’ortofrutta rappresenta il 10% dell’alimentare e investe in comunicazione appena il 3%. E senza essere propriamente sintonizzata sulle nuove forme di comunicazione. Il canale digital negli ultimi anni è passato dal 20 al 40%, la televisione dal 50 al 40%: in questo contesto il settore orofrutticolo ancora è orientato principalmente al piccolo schermo, in cui investe il 60% di risorse, mentre sul digitale è fermo al 21%. “Sento molti parlare di storytelling – conclude Garipoli -, una parola ormai blasonata. Dobbiamo ricordaci cosa significa davvero: è tutto quello che resta di una storia quando dalla storia vediamo i fatti, e dunque è emozione.

                      Copyright: Fruitbook Magazine