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                      Caporalato nei campi di angurie: assolti gli imprenditori di Nardò. “Nessuna schiavitù”

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                      Assolti 11 dei 13 imputati condannati due anni fa in primo grado per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla “riduzione in schiavitù” di lavoratori migranti, impiegati nelle campagne del Salento nella raccolta di angurie e pomodori. Cadono quindi le accuse a carico degli imprenditori ortofrutticoli Pantaleo Latino, detto il ‘Re delle angurie’, Livio Mandolfo, Giovanni Petrelli e Marcello Corvo. Secondo la nuova sentenza “il reato non sussiste”. Pagano solo due caporali stranieri

                       

                      Dalla Redazione

                       

                      Caporalato angurie Nardò“Riduzione in schiavitù” dei lavoratori. Quando a luglio 2017 fu emessa questa sentenza, era la prima volta che veniva riconosciuto questo tipo di reato, per il quale sono finite in carcere 13 persone di Nardò (Lecce), accusate a vario titolo di avere lucrato sul sudore di braccianti provenienti dall’Africa impiegati nella raccolta di angurie e pomodori nelle campagne del Salento. Oggi, dopo due anni, i giudici della Corte d’assise d’appello di Lecce hanno assolto 11 dei 13 imputati condannati in primo grado, con pene comprese tra i 7 e gli 11 anni di reclusione. La Corte ha accolto la tesi del collegio difensivo che puntava sul fatto che nel periodo di contestazione dei fatti, tra il 2008 e il 2011, il reato di riduzione in schiavitù non fosse ancora previsto dalla legge.

                       

                      Sono stati quindi assolti, come riporta LeccePrima, gli imprenditori pugliesi Pantaleo Latino, detto il ‘Re delle angurie’, ritenuto dall’accusa a capo del sodalizio criminale transnazionale dedito allo sfruttamento e riduzione in schiavitù dei migranti, Livio Mandolfo e Giovanni Petrelli, tutti e tre condannati a 11 anni di reclusione, e Marcello Corvo, che di anni ne aveva rimediati tre. Assolti anche gli imputati tunisini, algerini e del Sudan ritenuti caporali del sodalizio: Saber Ben Mahmoud Jelassi, Ben Abderrahma Jaouali Sahbi, Bilel Ben Aiaya Akremi, Saed Abdellah, Meki Adem, Nizqr Tanjar, Tahar Ben Rhouma Mehadaoui, Mohamed Yazid Ghachir e Abdelmalceck Aibeche.

                       

                      La sentenza ha inoltre annullato per tutti gli imputati, a eccezione di Corvo e Aibeche, il decreto che dispone il giudizio per la genericità delle contestazioni relative al reato di estorsione e alle violazioni al testo unico sull’immigrazione, con la trasmissione degli atti al gup. Pagano solo due caporali stranieri: si tratta di Jelassi e di Akremi, per i quali i giudici hanno riformulato la pena, condannando il primo a cinque anni e mezzo di carcere, più 1.500 euro di multa; il secondo a sei anni e 2 mila euro di multa.

                       

                      Alla base della prima sentenza di colpevolezza emessa due anni fa c’era un’indagine, denominata Sabr, che nel maggio del 2012 sfoció in 22 ordinanze di custodia cautelare in carcere, facendo luce su un’organizzazione a struttura piramidale. Al vertice c’erano gli imprenditori locali accordati tra loro in una sorta di “cartello”, che si sarebbero affidati ai reclutatori, il cui compito era far arrivare risorse umane dall’estero; a seguire, i caporali o capi cellula, impegnati nella gestione di spostamenti dei lavoratori entro i confini del Bel Paese. I capi squadra, invece, si sarebbero occupati, tra le altre cose, del trasporto nei campi. Alla base della piramide, infine, i braccianti sottoposti a turni massacranti (10-12 ore al giorno senza riposo settimanale) in cambio di paghe irrisorie, decurtate dai padroni delle spese per vivande e trasporto.

                       

                      Al banco degli imputati, dinanzi alla Corte d’assise di Lecce, finirono inizialmente in 16, nove stranieri e sette imprenditori salentini. Le accuse contestate a vario titolo: riduzione in schiavitù, associazione per delinquere, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, violenza privata, falsità materiale, favoreggiamento dell’ingresso e della permanenza di stranieri in condizioni di clandestinità. Durante il primo processo, cruciali nel sostenere l’impianto accusatorio, furono le testimonianze del comandante dei carabinieri del Ros di Lecce, Paolo Vincenzoni, che svolse le indagini, e di Yvan Sagnet, l’ingegnere camerunese divenuto simbolo della rivolta nei campi. Sagnet era parte civile. Oltre a lui, c’erano anche altri sette braccianti, la Regione Puglia, (con l’avvocato Anna Grazia Maraschio), Cgil, camera del lavoro (con l’avvocato Vittorio Angelini), Flai-Cgil (con l’avvocato Viola Messa), e l’associazione Finis Terrae che gestiva la masseria Boncuri (con l’avvocato Maria Russo).

                       

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