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                      Come la Spagna ha cambiato la peschicoltura in Italia

                      Quante cose sono cambiate dal 2000 ad oggi. L’Italia è passata dall’essere campione indiscusso della peschicoltura continentale, protagonista con le sue pesche e nettarine nei supermercati di tutta Europa durante l’estate, all’essere un elefante ferito che non riesce a stare al passo con il nuovo campione: la Spagna. La produzione italiana si è mantenuta tutto sommato stabile nei quantitativi, passando da poco più di 1,4 milioni di tonnellate nel 2000 a 1,55 milioni di tonnellate nel 2012 (+10 per cento). La Spagna nello stesso periodo è cresciuta invece in modo deciso, da 500 mila tonnellate a 800 mila (+60 per cento). È andata molto peggio alla Francia, che è crollata da 450 mila a 300 mila tonnellate (-33 per cento). Per chiudere il quadro, stabile come l’Italia è la Grecia, con circa 300 mila tonnellate
                      Peschi in fiore in provincia di Verona

                      Peschi in fiore in provincia di Verona (Foto: Silvano Zampini)

                      A guardare bene i dati, però, si scopre che nella tenuta generale dell’Italia, c’è un vero e proprio tracollo a livello di superfici in Emilia-Romagna, che è la più importante regione produttiva italiana, scesa dal 2000 al 2010 da quasi 30 mila a 19 mila ettari investiti (-35 per cento). Pesante il calo anche in Veneto, sceso nel periodo da 6 mila ettari a 4 mila (-33 per cento), mentre ha retto il Piemonte, calato da poco più di 7 mila ettari a poco meno di 6 mila (-16 per cento). Regione con record negativo in termini percentuali il Lazio, sceso da 3 mila ettari a 1.400 (-52 per cento). È insomma tutto il centro nord Italia che in un decennio ha registrato una significativa contrazione delle superfici investiti a pesche e nettarine, passando, nelle regioni indicate, da 46 mila a 30 mila ettari (-35 per cento).

                      A tenere in equilibrio produttivo l’output a livello nazionale – anche se in realtà le superfici sono comunque scese del 20 per cento passando da 82 mila a 66 mila ettari, segnale che a migliorare sono state le rese per ettaro – ci ha pensato il Meridione, con incrementi consistenti, come quello della Puglia cresciuta da 2.890 ettari a 4.600 (+60 per cento) e quello della Sicilia passata da 4.570 a 5.480 ettari (+20 per cento), e con la tenuta della Campania, la maggiore regione produttiva del sud Italia con più o meno 12.700 ettari (-4 per cento), della Basilicata (3.410 ettari nel 2010, +1 per cento) e della Calabria (3.400 ettari nel 2010, -2 per cento). Negli ultimi 10 anni insomma è emerso il grande vantaggio produttivo delle regioni del sud: il clima più mite permette da una parte di anticipare di alcune settimane, quelle più remunerative peraltro, la campagna rispetto al nord Italia e dall’altra riduce drasticamente il rischio di gelate in caso di primavera anticipata come sta succedendo quest’anno.

                      Aspetti economici. Durante il convegno che si è tenuto il 13 marzo a Pescantina, in provincia di Verona, sul tema “Quale futuro per la peschicoltura veronese”, i professori Carlo Pirazzoli e Alessandro Palmieri del Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Bologna hanno tenuto una relazione sulle nuove sfide economiche e di mercato della peschicoltura. Pirazzoli ha fatto notare che quando l’offerta di pesche, nettarine e percoche supera nell’Unione Europea una determinata soglia, attorno a 3,7 milioni di tonnellate, a un +10 per cento nella produzione corrisponde un -30 per cento nei prezzi. In altre parole un disastro. E questo è successo ben otto volte nelle ultime 10 campagne (dal 2004 al 2013). Solo nel 2010 la produzione è stata lievemente sotto a quella soglia. Converrebbe quindi non collocare sul mercato una parte della produzione quando questa si prevede abbondante, cercando sbocchi differenti come l’industria. Soluzione praticabile, questa, se la produzione fosse organizzata, ma in realtà essa non lo è affatto, soprattutto in certe regioni italiane, soprattutto in Veneto.

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