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                      Foggia, braccianti sfruttati e frode al fisco, arrestato imprenditore

                      Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati” sono queste le accuse che hanno portato alla misura cautelare dei domiciliari per Settimio Passalacqua, noto imprenditore agricolo di 78 anni di Apricena, nel Foggiano, e del suo stretto collaboratore di 62 anni Antonio Piancone. Sono state inoltre sottoposte a controllo giudiziario cinque aziende a lui riconducibili dove lavorano 222 dipendenti su 2.000 ettari di terreni. Si tratta di imprese che nel 2019 hanno prodotto un volume di affari di oltre 5 milioni e 800 mila euro, ma che retribuivano i dipendenti tra 3,33 e 5,71 euro l’ora, in totale violazione di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali. Costretti a lavorare sette giorni su sette per 7-9 ora al giorno, senza giorni di riposo e con una pausa di circa 30 minuti. Uno sfruttamento organizzato nel dettaglio, soprattutto per nascondere il lavoro nero e intascare sgravi contributivi per danni all’Erario stimati a 280 mila euro

                       Dalla Redazione

                      braccianti sfruttati

                      Arriva dalla Puglia, nello specifico da Apricena (Foggia), l’ennesima storia di caporalato e danni all’erario. Il noto imprenditore agricolo della Capitanata Settimio Passalacqua, 78 anni, e il suo collaboratore stretto Antonio Piancone, sono agli arresti domiciliari con l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati. I braccianti, per lo più lavoratori extracomunitari di diverse nazionalità, venivano quasi tutti reclutati nei ghetti della provincia di Foggia per lavorare nelle cinque aziende agricole a lui riconducibili, in condizioni di assoluto sfruttamento, come affermano gli investigatori.

                      Con queste cinque aziende Settimio Passalacqua aveva fatturato nel 2019 oltre 5 milioni e 800 mila euro. Ai suoi collaboratori agricoli veniva corrisposto un compenso che variava tra i 3,33 e i 5,71 euro l’ora, come ha accertato la procura di Foggia guidata da Ludovico Vaccaro. Molti dei lavoratori, inoltre, erano impegnati nei campi tutti i giorni della settimana, per una media variabile tra le 7 e le 9 ore giornaliere, senza concessione di alcun giorno di riposo e con una pausa di circa 30 minuti per il pranzo, peraltro non sempre concessa, in assenza dei periodi di ferie e malattia.

                      Il blitz è avvenuto il 1° luglio grazie alle indagini della “task force anticaporalato” appositamente costituita dai Carabinieri del comando provinciale di Foggia e del locale NIL su direzione e coordinamento della Procura della Repubblica di Foggia. La misura cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Foggia, su richiesta della Procura della Repubblica, contesta nello specifico i reati di concorso di persone in intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati, cui si aggiunge un ampio corollario composto da altre violazioni in materia di formazione dei lavoratori sui rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro, all’igiene del lavoro e di uso dei dispositivi di protezione individuali.

                      I braccianti sfruttati erano per la maggior parte lavoratori extracomunitari di diverse nazionalità (in prevalenza africane e albanese), quasi tutti reclutati dai ghetti presenti in provincia (a pochi chilometri da Apricena sorge il ghetto di Rignano Garganico, da sempre bacino di sfruttamento per le aziende agricole della zona), ma troviamo anche della manodopera italiana e comunitaria che veniva sfruttata approfittando dello stato di bisogno di queste persone.

                      Come riporta l’ordinanza cautelare del GIP Manuela Castellabate, è da sottolineare anche la “farraginosa modalità creata dall’imprenditore per garantire l’astratta corrispondenza tra quanto indicato in busta paga e quanto versato a titolo di retribuzione (che prevedeva la restituzione in contanti del surplus da parte dei lavoratori), sia per quanto riguarda la compravendita delle giornate di lavoro che fornisce all’imprenditore sgravi contributivi: la contestazione di un solo falso bracciante, infatti, comporta per l’azienda la restituzione di tutti gli sgravi di cui ha usufruito con riferimento al trimestre in cui è presente il lavoratore fittizio”.

                      braccianti sfruttati

                      Il “sistema” si basava su più metodi fraudolenti in base alla provenienza del lavoratore: agivano diversamente se il lavoratore era italiano o extracomunitario. Come spiega anche Foggia Today, nel caso in cui il lavoratore aveva interesse a vedersi riconosciute ai fini contributivi le giornate lavorative effettivamente fatte, gli veniva versato un assegno o un bonifico che riconosceva il pagamento delle ore lavorate corrispondente alle previsioni normative, che il ricevente doveva poi però restituire in contanti per la parte eccedente gli accordi presi in precedenza sulla paga oraria: questo caso riguardava tutti i lavoratori italiani.

                      Nel caso di braccianti stranieri o più bisognosi, invece, spesso il lavoratore non era a conoscenza del proprio interesse a vedersi riconosciute le giornate di lavoro, così il pagamento avveniva sempre in maniera tracciata, ma secondo la retribuzione pattuita in spregio alla normativa di settore, e l’azienda comunicava all’INPS non il numero di giornate effettivamente fatte, ma solamente quelle che andavano a far coincidere la somma elargita con le giornate che in teoria si sarebbero dovute svolgere per raggiungere quella somma.

                      Come se non bastasse, le indagini hanno accertato anche l’esistenza di falsi rapporti di lavoro, realizzati mediante la “compravendita di giornate lavorative”, in virtù della quale l’azienda comunicava all’INPS l’assunzione e la messa al lavoro di soggetti che poi al lavoro non si presentavano proprio, col vantaggio reciproco di aumentare percentualmente la quota di “sgravio contributivo” a favore dell’azienda compiacente, e del riconoscimento delle indennità assistenziali a favore del lavoratore fittizio. Tra gennaio e luglio 2019, è stato così accertato che le cinque imprese riconducibili all’indagato hanno nel complesso avuto un tornaconto di poco meno di 650 mila euro per le parziali retribuzioni, causando un danno all’erario di oltre 280 mila euro.

                      In questo sistema, Antonio Piancone, uomo di fiducia di Passalacqua, ricopriva un ruolo fondamentale in quanto riferiva di eventuali problematiche relative ai braccianti sfruttati, offrendo talvolta anche le relative soluzioni. Era lui il tramite tra i lavoratori impegnati nell’attività di coltivazione e l’imprenditore agricolo, oltre a ricoprire anche il ruolo di collegamento con gli altri caporali della zona per reclutare la manodopera da impiegare.

                      Assenti inoltre i dispositivi di protezione individuale: i braccianti sfruttati nelle attività di coltivazione di ortaggi, lavoravano “in violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene sul lavoro”. Scarsa infatti anche l’igiene e i soccorsi: gli investigatori non hanno trovato guanti protettivi, scarpe anti infortunistiche e occhiali di protezione. I dipendenti erano inoltre sprovvisti di materiale relativo al soccorso sanitario. Assente anche il bagno chimico nei luoghi di lavoro.

                      Anche FederBio – sottolinea in una nota – aveva segnalato in passato un’azienda di Passalacqua al comando dei carabinieri per la tutela agroalimentare. In quel caso per non conformità del pomodoro da industria biologico e per una gestione agronomica già allora sospetta anche per i cereali e altre produzioni orticole in rotazione. FederBio ha chiesto quindi “di estendere le indagini, anche rispetto alla gestione presunta biologica dei terreni e, se necessario, anche sull’organismo di certificazione se, come appare, non ha mai rilevato fatti gravissimi. Riteniamo necessario – conclude FederBio – fare chiarezza su questa vicenda, per questo motivo abbiamo deciso di costituirci Parte Civile”.

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