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                      Foggia, caporalato: 16 indagati, 5 arresti e 10 aziende coinvolte

                      Sedici persone indagate, cinque arresti e dieci aziende sottoposte a controllo giudiziario: sono questi i numeri del blitz anti-caporalato scattato nella mattina del 10 dicembre a Foggia e che vede coinvolta anche la moglie di Michele Di Bari, a capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, in quanto socia amministratrice di una delle aziende coinvolte nell’inchiesta. Le indagini sono partite dalle condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti numerosi braccianti provenienti dall’Africa, impiegati a lavorare nelle campagne della Capitanata, tutti alloggiati in condizioni precarie nella baraccopoli di Borgo Mezzanone

                      Dalla Redazione

                      caporalato

                      L’operazione anti-caporalato condotta nella mattina del 10 dicembre 2021 dai carabinieri e dai militari del Nil di Foggia ha portato a cinque arresti: due persone in carcere (entrambi cittadini stranieri, uno originario del Gambia e l’altro del Senegal) e tre ai domiciliari, mentre altre undici persone sono ora sottoposte all’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria. Tra loro anche Rosalba Bisceglia, moglie di Michele Di Bari, a capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno. Il Viminale ha poi comunicato che il prefetto ha rassegnato le proprie dimissioni a seguito della notizia dell’inchiesta, accettate dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Rosalba Bisceglia è infatti socia amministratrice di una delle aziende coinvolte nell’inchiesta. In totale sono dieci le aziende agricole sottoposte a controllo giudiziario, che in totale generano un volume d’affari da 5 milioni di euro l’anno.

                      L’indagine, che prende in esame le attività comprese tra luglio e ottobre 2020, è il proseguo dell’operazione ‘Principi e Caporali’ che nell’aprile scorso ha portato all’arresto di 10 persone e al controllo giudiziario di alcune aziende agricole coinvolte in attività di caporalato. Durate l’operazione, gli inquirenti e il personale del progetto SU.PRE.ME.1 hanno ispezionato anche i terreni agricoli a Manfredonia riconducibili a un’azienda di Trinitapoli: in quell’occasione i militari in appostamento hanno notato un uomo, poi identificato come il 33enne gambiano, che, mentre i braccianti erano intenti al lavoro, si avvicinava a dei cassoni pieni di pomodori e annotava qualcosa su un quaderno. Alla vista dei carabinieri, l’uomo si è allontanato velocemente facendo perdere le proprie tracce.

                      Dall’indagine portata avanti dagli inquirenti è emerso come i braccianti, assoldati dal caporale trentatreenne gambiano, lavoravano anche 13 ore al giorno nei campi di pomodoro, guadagnando cinque euro per ogni cassa riempita. Al caporale dovevano versare cinque euro per il trasporto (su mezzi precari e di fortuna) e per l’attività di intermediazione. Come riporta la Repubblica, era sempre il caporale gambiano ad annotare su un quaderno le quantità di prodotto raccolto da ogni bracciante. Insieme a lui anche un 32enne senegalese che avrebbe fatto da tramite con le imprese agricole del territorio e che forniva ai lavoratori “specifiche sulle modalità di comportamento in caso di accesso ispettivo da parte dei carabinieri”. Tutti i braccianti, provenienti dall’Africa e impiegati a lavorare nelle campagne della Capitanata, trovavano alloggio in condizioni precarie nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, dove c’è un accampamento che ospita circa duemila persone che vivono in precarie condizioni igienico-sanitarie. Identificati e sentiti dagli inquirenti, i braccianti coinvolti hanno raccontato di essere stati reclutati e portati sul posto proprio dal 33enne gambiano. Lo stesso si era occupato anche del profilo burocratico dell’assunzione, provvedendo all’invio dei documenti (a lui consegnati dai braccianti) e curando anche la corresponsione della relativa retribuzione.

                      Il sistema adottato dalle aziende e dal caporale è stato definito “quasi perfetto” dagli inquirenti: un apparato che andava dall’individuazione al reclutamento della forza lavoro necessaria alle aziende fino al sistema di pagamento, risultato palesemente difforme rispetto alla retribuzione stabilita dal CCNL: le buste paga, infatti, sono risultate del tutto false in quanto venivano indicate un numero di giornate lavorative inferiori a quelle realmente lavorate, non tenevano conto dei riposi e delle altre giornate di ferie spettanti. A questo si aggiunge il fatto che i lavoratori non venivano sottoposti alla prevista visita medica.

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