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                      Internazionale, nuovo reportage sullo sfruttamento dei braccianti e sui prezzi al ribasso in Gdo

                      “Il prezzo occulto del cibo a basso costo”: si intitola così il nuovo reportage di Internazionale sullo sfruttamento dei braccianti agricoli, immigrati per lo più, coinvolti in un fenomeno sempre più dilagante chiamato “lavoro grigio”. Che non è lavoro nero, che dal punto di vista burocratico ha i suoi espedienti per essere regolamentato e per poter funzionare, ma che poco si allontana dalle logiche di caporalato tanto deprecate (e perseguite dalla legge). Un secondo monito va, ancora una volta, alla politica dei bassi prezzi in Ggdo, “che non dà benefici a nessuno degli attori della filiera”

                       

                      Dalla Redazione

                       

                      braccianti sfruttamentoSiamo nelle campagne nell’Agro Pontino, in provincia di Latina, a cui è dedicato un nuovo reportage di Internazionale sullo sfruttamento in agricoltura. La prima parte del servizio dal titolo “Il prezzo occulto del cibo a basso costo”, firmato dai giornalisti Stefano Liberti e Fabio Ciconte, racconta le condizioni di alcuni operai che lavorano nelle aziende agricole tra Sabaudia, Terracina, Fondi e Sezze, “uno dei distretti agricoli più produttivi del centro Italia”, dove ci sono distese di coltivazioni in serra e in campo aperto, che finiscono sulle tavole italiane e anche all’estero, soprattutto nell’Europa del nord. “Molti degli ortaggi che troviamo in bella mostra nei supermercati (le zucchine, le melanzane, i pomodori, oltre che frutti come i kiwi e le angurie) provengono da qui. – si legge nell’articolo – E li raccolgono i lavoratori stranieri, soprattutto indiani, ma anche romeni, marocchini e tunisini”.

                       

                      Ci sono operai, in questi distretti agricoli, che percepiscono poco più di 200 euro al mese in busta paga, per intere giornate passate nei campi. Il salario viene stabilito in base ai pezzi raccolti: prendendo ad esempio i ravanelli, il prezzario della raccolta è di due centesimi per ogni mazzo da dieci, tre per il mazzo da quindici. Il resto del compenso viene dato fuori busta.

                       

                      “Gli immigrati sono ormai un elemento imprescindibile dell’Agro Pontino, così come di tutto il comparto agricolo italiano (…) – continuano i due giornalisti di Internazionale nel loro reportage – I prodotti che raccolgono sui campi finiscono nei mercati rionali, nei piccoli fruttivendoli di quartiere e sempre di più nei punti vendita della grande distribuzione organizzata. Costano poco, a volte pochissimo. Un mazzetto di ravanelli non arriva a un euro. Lo stesso vale per le zucchine o per l’anguria, pagata pochi centesimi al chilo. (…) Ma quello che paghiamo quando compriamo un prodotto non tiene conto di una serie di costi nascosti: perché gran parte del comparto si regge su lavoro grigio non denunciato (…)”

                       

                      Il reportage torna quindi a fare l’esempio del bracciante che raccoglie ravanelli. “A fine giornata i mazzetti di ravanelli sono contati e Singh (questo il nome dell’intervistato) è pagato in base alla quantità raccolta. Eppure, sulla sua busta paga mensile non compariranno i mazzetti. Figurerà invece un numero di giornate lavorate. Singh è regolarmente assunto e non compare in nessuna statistica di lavoratori irregolari in agricoltura. Se un ispettore del lavoro irrompesse nell’azienda dove lavora non avrebbe nulla da ridire: ha un contratto, ha fatto la visita medica e indossa anche gli indumenti necessari per la raccolta. Ma alla fine del mese percepisce molto meno di quello che gli spetterebbe di diritto”.

                       

                      Quello di Singh non è un caso isolato. “Potremmo anzi dire che è la prassi nel settore agricolo”, si legge nel reportage. Mentre il lavoro nero, cioè il numero di braccianti che non hanno un contratto di assunzione, diminuisce sempre più, anche come risultato della legge 199 del 2016 contro il caporalato, il “lavoro grigio” si diffonde e diventa un vero e proprio sistema, mettendo al riparo il datore di lavoro e, se c’è, il caporale. “Per alcune colture – come il ravanello, l’anguria, il pomodoro da industria – vige il pagamento informale a cottimo: i lavoratori sono pagati a cassone, mazzetto, quintale, ma il loro salario è conteggiato a giornata. Per altre colture, effettivamente pagate a giornata, vige invece una sorta di ‘salario di piazza’, cioè una paga inferiore a quella prevista dal contratto, ma che è informalmente accettata dalle parti”.

                      Come fanno i datori di lavoro a segnare meno giornate di quelle lavorate e sfuggire ai controlli? “Il trucco è che in agricoltura le giornate non sono dichiarate all’Inps contestualmente a quando sono lavorate, ma a posteriori, con il modulo della dichiarazione di manodopera agricola compilato trimestralmente (…). Quindi se arriva un controllo dell’ispettorato, l’imprenditore potrà mostrare il contratto di lavoro – che comunque segnala solo indicativamente quante sono le giornate di lavoro previste – e dimostrare che è tutto in regola. In teoria. In pratica l’imprenditore segna il numero di giornate che ritiene opportuno, in base al salario informale imposto o concordato con i braccianti. Oppure, nel caso del cottimo, in base alla quantità effettivamente raccolta”.

                       

                      L’assegno di disoccupazione è “l’espediente” che rende il meccanismo accettabile per tutti. “Si tratta di un sistema diventato prassi comune, approvato dagli stessi lavoratori. Nessuno vuole essere assunto a tempo indeterminato, perché perderebbe l’accesso alla disoccupazione, che è un’importante integrazione del reddito”, confida a Internazionale un imprenditore che chiede di restare anonimo. Il sistema non è virtuoso, lo ammette. Ma aggiunge anche “Io sarei ben felice di pagare i salari previsti dai contratti provinciali, ma se lo facessi chiuderei il giorno dopo, perché non riuscirei a starci dentro con i costi. I contratti non tengono conto di quanto pagano il prodotto gli acquirenti, in particolare la grande distribuzione organizzata”.

                       

                      E qui Internazionale torna a chiamare in causa le catene distributive, “che tendono a pagare sempre meno i prodotti agricoli, generando disfunzioni lungo tutta la filiera.  “La politica dei bassi prezzi non dà benefici a nessuno degli attori della filiera. – dichiara Gennaro Velardo, presidente di Italia Ortofrutta, interpellato da Internazionale – Anzi, sta erodendo il valore dell’ortofrutta agli occhi del consumatore. I produttori che gestiscono una merce altamente deperibile sostenendone tutti i costi certi della produzione sono la parte debole della filiera, hanno difficoltà a fare reddito e a coprire i costi di produzione, dati di fatto questi che determinano una iniqua distribuzione del valore lungo la filiera”.

                       

                      “Gli operatori agricoli, schiacciati dalle imposizioni della grande distribuzione organizzata, tendono a rifarsi sugli anelli più deboli della filiera, in particolare sui braccianti. – è la conclusione a cui giungono i giornalisti nel loro reportage – Risparmiano sul lavoro, e addossano parte dei costi di manodopera sullo stato, che non percepisce parte dei contributi e paga disoccupazioni non dovute. In una specie di gigantesca partita di giro, il cibo venduto ai consumatori ha un prezzo basso, ma è di fatto sovvenzionato da loro stessi attraverso sussidi non dovuti”.

                       

                      Una seconda parte del servizio di Internazionale sposta i riflettori su un altro distretto agricolo, quello della piana del Sele, in provincia di Salerno, uno dei principale poli produttivi della quarta gamma. “Il prodotto non è venduto a prezzi bassi: le busta di lattuga o di rucola da cento grammi costa almeno un euro, cioè l’equivalente di dieci euro al chilo. – continuano Liberti e Ciconte di Internazionale – Grazie alla valorizzazione del prodotto, le realtà agricole della zona, hanno fatturati importanti. Alcune hanno creato impianti di lavaggio e imbustaggio dei prodotti raccolti. Altre li vendono a grandi gruppi del nord o all’estero. Eppure, l’organizzazione del lavoro segue le stesse dinamiche dell’Agro Pontino (…)”.

                       

                      Il lungo reportage (vi rimandiamo a Internazionale per la versione completa) si conclude con un focus sugli aspetti “burocratici” che permettono al sistema di funzionare, sebbene “alla sede centrale dell’Inps abbiano ben chiare le dimensioni del fenomeno”.

                       

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