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                      Sostenibilità dell’agricoltura UE: premiare il bio può essere un errore?

                      Il bio è al centro della nuova strategia per la biodiversità dell’Unione Europea grazie all’approccio definito From Farm to Fork: una serie di obiettivi da raggiungere a livello comunitario entro il 2030 e che vedono in testa la riduzione dell’uso dei pesticidi del 50%, dei fertilizzanti del 24% (minimo) e di conseguenza aumentare dall’attuale 8% al 25% la superficie agricola Ue coltivata secondo i metodi dell’agricoltura biologica. Ma il bio può essere davvero la soluzione per garantire la biodiversità e la salvaguardia del pianeta? Secondo alcuni addetti al settore no, o meglio, non solo. Il bio necessita di un’estensione di coltivazioni maggiore perché ha una resa minore e non necessariamente è più sano o migliore. Inoltre, il bio dovrebbe essere l’indicazione di una modalità produttiva, ma diventa, nel discorso comune, una sorta di dichiarazione di genuinità. E nemmeno la filiera corta che l’Ue auspica non è la soluzione perché, come ci ha dimostrato la pandemia, non è la filiera lunga il problema, quanto la poca trasparenza di alcune produzioni in zone del mondo che non applicano controlli rigorosi. Bisognerebbe quindi forse guardare ad un’autosufficienza delle produzioni, adottando tecniche di produzione sicure e flessibili e valutare caso per caso, il che è alla base del concetto di biodiveristà

                      Dalla Redazione

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                      I cambiamenti climatici e il degrado ambientale sono una minaccia esistenziale per l’Europa e il mondo. Per superare queste sfide, l’Europa necessita di una nuova strategia di crescita che trasformi l’Unione in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e della competitiva. The European Green Deal è la nostra tabella di marcia per rendere sostenibile l’economia dell’UE. Ciò accadrà trasformando le sfide climatiche e ambientali in opportunità in tutti i settori politici e rendendo la transizione giusta e inclusiva per tutti”. Questa dichiarazione compare sul sito dell’Unione Europea, che il 20 maggio 2020 ha presentato, all’interno della nuova strategia per la biodiversità dell’Unione Europea, l’approccio definito From Farm to Fork: dalla fattoria alla forchetta.

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                      Gli obiettivi europei per il 2030 sono ambiziosi: entro 10 anni dovremmo “ridurre l’uso dei pesticidi del 50% e dei fertilizzanti almeno del 24%” e “aumentare al 25% la superficie agricola Ue coltivata secondo i metodi dell’agricoltura biologica”, dall’8% che è oggi.

                      Però, fare biologico (biologico, biodinamico, macrobiotica, ecc.) è meno produttivo e sicuro dell’agricoltura tradizionale, sostiene Gilberto Corbellini, professore ordinario di storia della medicina e docente di bioetica presso la Sapienza Università di Roma, in un articolo pubblicato dall’Huffington Post il 29 maggio 2020.

                      Il bio, inoltre, richiede maggiori estensioni di terreno e più consumo di suolo: se il 25% dei terreni verrà coltivato in modo bio, non renderà quanto sarebbe possibile con metodi “tradizionali”. “È un singolare modo di ragionare  – afferma Gilberto Corbellini – quello che premia il biologico come metodo di coltivazione, nel nome della biodiversità: se nel mondo prevalesse il biologico per sfamare la popolazione umana nel 2050 dovremmo trasformare in terreno agricolo gran parte dei santuari ecologici”.

                      “Bene la sostenibilità – afferma invece il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti – ma qui bisogna definire delle politiche volte all’autosufficienza alimentare e alla crescita del sistema agricoltura. Con la diffusione del coronavirus è risultato evidente quanto sia fondamentale, nei momenti di crisi, che le nazioni siano in grado di rispondere alle esigenze del consumatore. L’obiettivo numero uno, oggi, è dunque quello dell’autosufficienza alimentare, attorno al quale poi si devono costruire tutte le altre strategie. In futuro rischiamo di trovarci di fronte un’agricoltura sostenibile ma non sufficiente a sfamare tutti. E sapete cosa comporta questo? Aumenterebbero di fatto le importazioni da Paesi terzi che applicano regole diverse e meno rigorose”.

                      In effetti, tra gli obiettivi 2030 From Farm to Fork, viene data importanza anche alle filiere brevi, coerentemente con la necessità di rinsaldare la sicurezza alimentare, in un mondo dove viaggi e spostamenti si riducono, per evitare che assieme con noi viaggino anche gli agenti patogeni. In realtà però la pandemia scatenata dal covid-19 dimostra che il problema non è tanto la lunghezza della filiera, ma la sicurezza alimentare locale.

                      “Il bio dovrebbe essere l’indicazione di una modalità produttiva – specifica Gilberto Corbellini  –, ma diventa, nel discorso comune, una sorta di dichiarazione di genuinità. Come spesso accade, è difficile distinguere fra marketing e politica: e i due hanno una base comune. La diffusa nostalgia per l’agricoltura di una volta: e non importa se quell’agricoltura, una agricoltura per così dire priva dei supporti chimici e industriali tipici dell’epoca contemporanea, faceva vivere male i contadini e sfamava male una popolazione europea che era meno di un quinto dell’attuale”.

                      Forse quindi la soluzione sta nel mezzo, e nell’elasticità, in quanto la soluzione non sta solamente nella diminuzione di antibiotici o di fitofarmaci, ma bisogna anche stare attenti alle concorrenze sleali attraverso una corretta regolamentazione sulle importazioni e sul principio di reciprocità. “Non vorrei mai che l’ultima battaglia della Gran Bretagna in Europa sia volta a diventare, una volta uscita, il Paese di ingresso rispetto a tutto ciò che l’Europa vieterà” afferma Ettore Prandini. Così, oltre a regolamentare le importazioni e incentivare il bio, c’è un altro aspetto sul quale bisognerebbe riflettere di più, ovvero la ricerca genetica. “A mio avviso non ci si può limitare a una riduzione dei fitofarmaci ma bisogna anche cercare di dare delle soluzioni per salvaguardare la produttività. Noi – afferma Prandini -, insieme a dei ricercatori italiani, abbiamo creato sementi e prodotti assistiti, un termine coniato per rappresentare una novità rispetto ai vecchi ogm. In questo caso si va ad intervenire sul DNA della pianta stessa, rafforzandola lì dove è più debole, così tuteliamo la biodiversità e garantiamo una riduzione di fitofarmaci”. In questo ambito sarà fondamentale una ricerca libera e incentivata dalla politica, in modo tale che non diventi campo fertile (a proposito) per le multinazionali.

                      L’agricoltura bio è un protocollo di produzione, come quella integrata – spiegava il direttore Davide Neri del Centro di Ricerca per la Frutticoltura di Roma in un’intervista al Gambero Rossoche in alcune situazioni può funzionare. Ma non sono in grado di ipotizzare le percentuali che potranno essere raggiunte, però una cosa è certa: all’interno di questa ricchezza di genotipi, di volta in volta, si può trovare il protocollo di produzione più adatto. L’arma vincente è l’elasticità”.

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