di Carlotta Benini
Viene chiamato anche “rapa tedesca”, “carciofo di Gerusalemme” o “girasole del Canada”. In realtà è un tubero, dalle radici commestibili e dalle caratteristiche organolettiche peculiari, molto apprezzato in cucina per la sua versatilità e prezioso alleato della salute. Stiamo parlando del topinambur, una coltivazione di nicchia sempre più diffusa anche nel nostro Paese, specie in Veneto, dove questa pianta dal carattere rustico trova il suo habitat naturale nei pressi dei corsi d’acqua o nei terreni meno aridi. Ma anche il clima mediterraneo pare essere adatto alla produzione di topinambur: i terreni più caldi e sabbiosi, infatti, dove si crea meno ristagno di umidità, favoriscono uno sviluppo più precoce del tubero, permettendo così di anticipare le produzioni del Nord Italia. Siamo in Sardegna, nel Medio Campidano, dove da circa quattro anni è operativa un’azienda che ha investito pionieristicamente in questa coltivazione, diventando oggi la principale realtà dell’isola a lavorare e commercializzare topinambur.
L’azienda in questione è la Picci Renzo di Serramanna (VS), specializzata nella produzione e trasformazione di carciofi. “Visti i risultati non sempre brillanti che si riescono a ottenere con questo ortaggio, qualche anno fa ho deciso di reinventare l’azienda e scommettere su una produzione di nicchia, ancora sconosciuta in Sardegna – ci racconta il titolare Renzo Picci -: così sono arrivati i primi impianti di topinambur, una coltivazione non semplice da gestire dal punto di vista agronomico, ma che sa dare grandi soddisfazioni”.
Oggi l’azienda ha 10 ettari dedicati a topinambur: la raccolta è iniziata i primi giorni di novembre e si protrarrà fino a fine febbraio-inizio marzo. “Le nuove piante hanno una produttività di 300 quintali a ettaro – rivela Picci – quindi complessivamente contiamo di commercializzare circa 3 mila quintali di prodotto. A fine raccolta il prodotto si conserva bene per mesi e mesi, quindi è disponibile sul mercato quasi tutto l’anno”.
Il “Topinambur di Sardegna” – così viene chiamato nella pagina Facebook dedicata – viene commercializzato in Gdo con il marchio Piccar e anche nelle linee private label di alcune insegne distributive. “Lavoriamo direttamente con alcune aziende della Gdo locale e indirettamente, tramite grossisti, siamo presenti anche in alcune catene e discount che operano a livello nazionale. Il grosso della produzione (circa il 70%, ndr), però, viene destinato al mercato estero, sempre canale retail”, prosegue Renzo Picci.
Il tubero viene coltivato a campo aperto, i primi di maggio si effettuano gli impianti e la pianta fiorisce in estate, arrivando a svilupparsi in altezza fino a 4 metri. C’è molta molta attenzione dal punto di vista agronomico dietro a questa coltivazione, tanta passione e tanto sudore, e anche la fase di lavorazione richiede particolari accortezze: il topinambur sardo infatti sviluppa un calibro maggiore rispetto a quello francese o del Nord Italia, è più costoluto e quindi nelle fasi di lavaggio necessita più cura e di più passaggi manuali. La produzione mantiene però il suo carattere rustico ed è sostenibile e sicura, richiedendo l’impiego di qualche fertilizzante naturale e nulla di più. A garantire la qualità, la sostenibilità e la tracciabilità del prodotto è la certificazione GlobalGap.
Il gusto? “Alcuni clienti sostengono che il topinambur sardo abbia caratteristiche uniche – conclude Picci – e che sviluppi una qualità superiore rispetto alle altre tipologie coltivate in Italia o all’estero”.
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