di Eugenio Felice
Teresa Bellanova, nata nel 1958 in provincia di Brindisi, titolo di studio terza media, ex sindacalista e oggi esponente del partito renziano Italia Viva, può essere considerata ad oggi tra i peggiori ministri che abbia ospitato via XX Settembre a Roma. E ce ne vuole, dato che il settore primario in Italia negli ultimi decenni non ha mai visto un ministro competente e illuminato. Il flop più eclatante, un fallimento annunciato, è la sanatoria per i clandestini presentata con le lacrime agli occhi dalla ministra Bellanova lo scorso maggio, sanatoria contenuta nel Decreto Rilancio per regolarizzare braccianti e colf irregolari. Dovevano essere 600 mila secondo la ministra, sono stati 207 mila alla fine, di cui l’85% lavoratori domestici e il 15%, vale a dire circa 30 mila, braccianti agricoli. Secondo la Confederazione Italiana Agricoltori – CIA, a beneficiare del decreto targato Bellanova sono stati “per la maggior parte richiedenti asilo politico, che hanno già un regolare contratto di lavoro, ma che hanno aderito per sanare le posizioni relative al titolo di soggiorno”. In sostanza, non si è trattato di invisibili che hanno ottenuto un’identità, come voleva far credere Teresa Bellanova. Sulla “emergenza sociale e sanitaria”, come è stata definita, la manovra non ha avuto in sostanza alcun impatto significativo.
Il fallimento Bellanova era già stato ampiamente preventivato dalle associazioni di categoria del settore primario, che avevano sollecitato invano il Governo a iniziative volte da un lato a promuovere corridoi di ingresso in condizioni di sicurezza sanitaria per i lavoratori comunitari, come hanno fatto Francia, Regno Unito e Germania, dall’altro alla promozione dei voucher lavoro per offrire opportunità di impiego anche alla manodopera italiana, compresi i beneficiari del reddito di cittadinanza poi esentati, ingiustamente, dall’obbligo di accettare proposte di lavoro in agricoltura. Sui corridoi verdi, clamoroso il caso del volo charter partito da Pescara alla volta del Marocco per portare nei campi manodopera già qualificata e non immigrati clandestini improvvisati. In più la beffa per i datori di lavoro: tre settimane dopo la scadenza della sanatoria – prima fissata al 15 luglio, poi posticipata al 15 agosto date le scarse adesioni – è stato fissato in 300 euro il tributo da versare (tra tasse e contributi) per ogni mese di lavoro nero prestato, che vanno ad aggiungersi ai 500 euro una tantum previsti dalla sanatoria. Insomma, 500 euro sono diventati 2.000 euro, ipotizzando che la prestazione sia cominciata a marzo: dallo Stato è arrivato agli imprenditori agricoli il solito salasso.
Venendo poi al settore ortofrutticolo, ha fatto scalpore nelle ultime settimane l’incredibile e ingiustificata esclusione delle aziende che si occupano di frutta e verdura dall’esonero straordinario dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per il primo semestre 2020 previsto dal Decreto Rilancio per le filiere agroalimentari (leggi l’articolo). Il comparto ortofrutticolo è l’unico che non rientra nel regime degli sgravi contributivi e fiscali concessi a seguito del lockdown e firmati dalla ministra Teresa Bellanova. Come è stato da più parti sottolineato, è stato trascurato un comparto di fondamentale importanza sotto il profilo economico e occupazionale, nonostante abbia contribuito a fornire un contributo essenziale alla nostra società nelle difficoltà della pandemia. Come se non bastasse, si aggiunge la beffa del credito di imposta per le spese di sanificazione ed acquisto dei dispositivi di protezione, che è passato dal 60% annunciato dal presidente Conte a reti unificate al 9% dei costi sostenuti. Insomma, gli aiuti al settore ortofrutticolo da parte dello Stato saranno pressoché irrilevanti. Segno che, al di là dei buoni propositi di facciata, in realtà per la Casta il settore ortofrutta non è interessante. Forse anche per la polverizzazione dei suoi interlocutori?
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