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                      Banane fair trade, lavoro sfruttato in Rep. Dominicana per Internazionale

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                      “Chi paga il conto per le banane equosolidali?” è il titolo del servizio pubblicato da Internazionale il 22 maggio (leggi qui). Stefano Liberti ha fatto parte di una piccola delegazione di giornalisti che nel mese di marzo è andata a vedere l’origine della filiera della banana, in uno dei Paesi più importanti per il commercio equosolidale, la Repubblica Dominicana, scoprendo che la paga giornaliera per chi raccoglie banane è inferiore ai cinque euro al giorno, un salario che non permette di condurre una vita dignitosa, come riconosce lo stesso movimento Fairtrade. “Siamo consapevoli della criticità relativa alle condizioni dei lavoratori nelle piantagioni della Repubblica Dominicana”, ha affermato Thomas Zulian, responsabile del settore banane per Fairtrade Italia

                       

                      Dalla Redazione

                       

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                      (Fonte: Internazionale)

                      Compriamo banane equosolidali, o fair trade per dirla con il termine inglese, pensando che siano state coltivate senza sfruttare lavoratori e ambiente e invece scopriamo che è il contrario. Almeno per quanto riguarda la manodopera e il Paese che produce più banane biologiche: la Repubblica Dominicana. È quello che ci racconta il lungo servizio di Internazionale (leggi la versione integrale) a firma Stefano Liberati, pubblicato il 22 maggio, dopo una visita in quel Paese, che produce per il 70 per cento banane biologiche, di cui il 40 per cento inserito nel circuito del commercio equosolidale. Un terzo delle banane fair trade consumate in Italia arriva da questa piccola isola caraibica che si trova tra Cuba, Giamaica e Puerto Rico.

                       

                      Il giornalista di Internazionale visita di sua iniziativa un villaggio di braccianti, il il Batey 3 di Boca de Mao, che ospita circa duemila persone, al 95 per cento immigrati haitiani. Per tenere i cosiddetti braceros vicini alle piantagioni, le compagnie avevano costruito questi villaggi di baracche informali. All’inizio si trattava di soluzioni abitative per operai stagionali, che alla fine della raccolta dovevano tornare a casa al di là della frontiera. Ma pian piano, le popolazioni sono diventate stanziali, si sono create famiglie e gli insediamenti si sono istituzionalizzati. Il Batey 3 di Boca de Mao – sottolinea Stefano Liberati – si sviluppa su alcune stradine fangose e maleodoranti ai cui lati scorrono liquami.

                       

                      La paga per questi braccianti è di 280 pesos al giorno per otto ore lavorative. Poco meno di 5 euro. Anche da queste parti un lavoro sottopagato che non permette di condurre una vita dignitosa e costringe a vivere in baracche senza servizi in cui l’elettricità c’è solo nelle ore di punta. Secondo padre Regino Martínez, un gesuita sanguigno, dai toni diretti, che da anni attacca frontalmente il governo dominicano e gli imprenditori delle banane, “nelle piantagioni c’è un sistema di schiavitù legalizzata. Gli operai haitiani non hanno modo di negoziare salari più alti e vivono nella miseria più assoluta. L’abbondanza di manodopera permette lo sfruttamento più assoluto”.

                       

                      Oggi una cassa di banane da 18 chili è venduta a 7,5 dollari, che salgono a 9,6 nel caso di banane biologiche e fair trade. Nel Regno Unito, primo mercato di destinazione delle banane biologiche e fair trade provenienti dalla Repubblica Dominicana, le catene di supermercati hanno lanciato negli ultimi anni una vera e propria guerra dei prezzi al ribasso per accaparrarsi consumatori. I grandi gruppi britannici, come Asda, Sainsbury’s, Morrison e Tesco, le vendono a 0,72 sterline al chilo, 0,85 euro. A questi prezzi c’è poco margine per migliorare veramente le condizioni dei piccoli produttori e dei lavoratori, nonché le condizioni ambientali per una produzione davvero sostenibile.

                       

                      L’articolo chiude con l’Italia. Nel nostro Paese arrivano ogni anno undicimila tonnellate di banane certificate Fairtrade, un terzo delle quali dalla Repubblica Dominicana (le altre provengono da Perù ed Ecuador). I numeri sono meno rilevanti rispetto ad altri mercati europei, ma registrano comunque una crescita annua intorno all’8 per cento. Anche se il prezzo al consumatore non è mai sceso ai livelli britannici, il problema dello sfruttamento degli immigrati haitiani esiste comunque. “Siamo consapevoli della criticità relativa alle condizioni dei lavoratori nelle piantagioni della Repubblica Dominicana”, ha afferma Thomas Zulian, responsabile del settore banane per Fairtrade Italia.

                       

                      A questo link potete leggere la risposta completa che Fairtrade Italia ha dato all’articolo di Internazionale: in particolare si sottolinea la differenza tra la certificazione Fairtrade (scritto maiuscolo e una sola parola) e il circuito del commercio equosolidale o fair trade (scritto minuscolo e in due parole).

                       

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