Dalla Redazione
Plastic free mania? Le soluzioni proposte dalle grandi multinazionali del food & beverage per combattere l’emergenza ambientale sostituendo i packaging e le stoviglie derivati dal petrolio con materiali alternativi sarebbero in realtà “inefficaci e non sostenibili” e distoglierebbero risorse e attenzione da strategie migliori. A dirlo è Greenpeace, che di recente ha pubblicato un rapporto dal titolo eloquente: “Il Pianeta usa e getta. Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica”. Il dossier si apre con una panoramica sull’emergenza ambientale che colpisce gli oceani e la fauna marina, che tuttavia “è solo la parte visibile del problema”: c’è infatti anche il probelma delle microplastiche, frammenti inferiori ai 5 millimetri ritrovati non solo in mare, ma anche nelle acque dolci, nei suoli e nell’aria che respiriamo. Poi si parla delle emissioni in atmosfera derivanti dal processo produttivo della plastica: solo 2019, a livello mondiale, la produzione e l’incenerimento di rifiuti in plastica raggiungerà un livello di emissioni di anidride carbonica pari a quello di 189 centrali elettriche a carbone. Nonostante questo, sottolinea Greenpeace, si stima che la produzione di plastica aumenterà del 40% nei prossimi 10 anni, con un settore di primo utilizzo che è quello del packaging usa e getta.
“Di fronte a tale scenario numerose persone in tutto il mondo si stanno attivando nella direzione giusta, ricorrendo a quelle soluzioni che le grandi aziende, che producono i più grandi volumi di plastica monouso, non offrono: rifiutano la plastica usa e getta in favore dello sfuso o dell’impiego di contenitori riutilizzabili”, scrive Greenpeace. In risposta a questa spinta della società civile alcune tra le più grandi multinazionali del food&beverage hanno riconosciuto la necessità di dover intervenire, ma gran parte delle soluzioni proposte finora, oltre a non essere efficaci per fronteggiare l’emergenza, non prevedono di abbandonare l’usa e getta perpetuando il loro modello di business. “Nessuna delle grandi multinazionali come Nestlé, PepsiCo e Coca Cola – è l’accusa dell’associazione ambientalista – si è impegnata a ridurre la produzione di packaging monouso, investendo in sistemi di consegna basati sullo sfuso e sulla ricarica. Sono anzi numerose le false soluzioni proposte”.
Cosa intende Greenpeace con “false soluzioni” per ridurre l’utilizzo della plastica? Un esempio citato è quello del cartone. “Molte aziende come McDonald’s e Nestlè stanno cercando di ridurre l’uso di plastica sostituendo parte degli imballaggi con packaging celliulosici. Questo cambiamento è spesso pubblicizzato come positivo perché la carta è in genere percepita come una materiale più sostenibile della plastica dal punto di vista ambientale, ma si tratta di una soluzione altrettanto problematica. La carta deriva infatti dal legno e le foreste, ecosistemi ad elevata biodiversità, sono fondamentali nella lotta al cambiamento climatico. Per tale motivo qualsiasi aumento nella richiesta di carta aumenterà i rischi non solo per le foreste ma anche per il clima”. D’altra parte anche le foreste gestite responsabilmente con certificazioni di sostenibilità (come FSC e PEFC) non sono in grado di rispondere a un aumento della domanda di carta, secondo quanto riportato nel report. Altre criticità sarebbero infine legate al sistema del riciclo della carta, che non è in grado di fornire, su scala globale, una quantità di materiale utile a far fronte all’aumento della domanda di packaging in carta. Per le aziende, soprattutto quelle del settore alimentare, reperire sul mercato carta riciclata di qualità non è facile, spesso a causa delle contaminazioni che si possono verificare durante il processo di riciclo. A volte, invece, sono proprio i nuovi packaging di carta a non essere riciclabili, come nel caso delle cannucce introdotte da McDonald’s nel Regno Unito e in Irlanda, che a causa del loro spessore e della loro composizione non possono essere riciclate.
Quello che Greenpeace definisce “greenwashing”, ovvero quella strategia comunicativa propria dei brand che intendono costruirsi un’immagine “green” senza esserlo poi così tanto, passa anche attraverso le cosiddette bioplastiche. “Alcune aziende stanno sostituendo parte della plastica monouso derivante da fonti fossili con plastica a base di materie prime rinnovabili (per esempio mais e canna da zucchero), spesso promossa come biodegradabile e compostabile – scrive Greenpeace -. Gran parte delle tecnologie attualmente disponibili non consentono di produrre packaging interamente in materiale rinnovabile, spesso quindi confezioni e imballaggi in bioplastica sono realizzati solo in parte con materiali rinnovabili”. Un esempio citato è quello della bottiglia NaturALL, che sarà adottata in alcune nazioni da Danone e Nestlé, promossa come “bio” ma costituita per il 70 per cento da plastica tradizionale. “È bene quindi diffidare da termini come eco, bio o green – puntualizza Greenpeace -, il più delle volte utili solo per il marketing”. Questo, si legge nel report, considerando anche che la maggior parte della plastica a base biologica proviene da colture agricole che, oltre a competere con la produzione di alimenti, cambiano l’uso del suolo e aumentano le emissioni inquinanti derivanti dall’agricoltura. Che il ricorso al termine biodegradabile è spesso fuorviante per i consumatori: questi prodotti non si decompongono se dispersi nell’ambiente o gettati in discarica, ma solo in determinate condizioni di temperatura e umidità, raramente presenti in natura. In pratica, se dispersi nell’ambiente possono dar luogo agli stessi problemi dei prodotti in plastica tradizionale. Infine, precisa il report, va considerato che la plastica compostabile è progettata per decomporsi del tutto solo in condizioni tipiche degli impianti di compostaggio industriali o, più raramente, in sistemi di compostaggio domestico. Non in tutto il mondo sono presenti questi impianti e, se ci sono, comunque non sono in grado di gestire grandi quantità di rifiuti. Di conseguenza queste plastiche spesso finiscono per essere smaltite in discarica o negli inceneritori esattamente come le plastiche monouso convenzionali (leggi a questo proposito la news relativa all’allarme lanciato da Alia).
Infine Greenpeace mette sotto la lente il riciclo, soluzione adottata da molte multinazionali come risposta principale al problema dell’inquinamento da plastica. “I sistemi di riciclo attuali non sono in grado di recuperare una quantità di materiale tale da ridurre la domanda di plastica vergine e di assicurare un adeguato smaltimento della crescente quantità di rifiuti prodotti – scrive Greenpeace -. Per alcune plastiche realmente riciclabili come il Polietilene tereftalato (PET) e il Polietilene ad alta intensità (HDPE) i tassi di riciclo sono ancora spaventosamente bassi: solo la metà del PET venduto viene raccolto per essere riciclato, e solo il 7% delle bottiglie raccolte per il riciclo sono trasformate in nuove bottiglie”. Gran parte del packaging in plastica sarebbe quindi soggetto a “downcycling”: invece di essere utilizzato per nuovi imballaggi in plastica riciclata, viene riprocessato per prodotti di qualità inferiore non riciclabili. Inoltre, negli ultimi anni è cresciuta la quantità di packaging composto da diversi materiali (poliaccoppiati) difficili, se non impossibili, da riciclare. Se consideriamo poi che produrre plastica vergine spesso costa meno rispetto a quella riciclata, è facile rendersi conto che, anche se delle tipologie di plastiche sono tecnicamente riciclabili, non significa che saranno riciclate perché trovano difficile collocazione sul mercato. Pertanto, sepocndo Greenpeace, il riciclo può essere solo una soluzione parziale e di transizione verso una graduale eliminazione del packaging.
In conclusione, sarebbe questa la soluzione davvero sostenibile secondo Greenpeace: ridurre il packaging e gli altri prodotti usa e getta, a prescindere dal tipo di materiale, in favore di soluzioni alternative basate sul riutilizzo e sulla ricarica. Le soluzioni proposte fino ad oggi dalle multinazionali sono solo “toppe” insufficienti ad affrontare un problema molto più grande, che si può risolvere solo ripensando il modo in cui tutti i prodotti, alimentari o meno, sono realizzati, distribuiti e consumati.
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