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                      Alzheimer, rischio minore per chi consuma più frutta e verdura

                      Alzheimer
                      Che frutta e verdura siano alla base di una dieta sana è risaputo, ma che i flavonoli – un gruppo di antiossidanti della famiglia dei flavonoidi presenti in frutta, verdura e tè nero – aiutino a prevenire l’Alzheimer è quanto emerge da una ricerca della Rush University di Chicago. Al termine dello studio, che nel corso di sei anni ha preso in esame un campione di 921 anziani, i ricercatori hanno osservato che le persone con la dieta più ricca di flavonoli presentavano circa il 48% di rischio in meno di sviluppare la malattia rispetto a coloro che avevano una dieta povera di questi elementi

                      Dalla Redazione 

                      Alzheimer

                      Frutta e verdura, particolarmente quella a foglia verde e il tè nero, sono ricchi di flavonoli. Una dieta ricca di frutta e verdura è quindi fondamentale per godere di buona salute, specialmente quella mentale”. A dirlo – come riporta Reuters Health – è Thomas Holland, ricercatore a capo di uno studio dell’università Rush di Chicago pubblicata sulla rivista Neurology che ha analizzato la correlazione tra flavonoli e insorgenza del morbo di Alzheimer.

                      La ricerca ha studiato un campione di 921 anziani privi di forme di demenza nel corso di sei anni. Al termine dello studio, 220 delle 921 persone in esame avevano sviluppato forme di Alzheimer, ma per le persone con il più alto consumo di flavonoli si è osservato il 48% in meno di probabilità di sviluppare l’Alzheimer rispetto a quelle con il consumo più basso.

                      I flavonoli sono antiossidanti della famiglia dei flavonoidi, fitochimici in genere presenti nei pigmenti vegetali e noti per le loro proprietà antiossidanti e anti-infiammatorie, e se è vero che la correlazione tra flavonoidi in generale e minor rischio di sviluppare il morbo non è cosa nuova, lo studio di Chicago presenta dati interessanti proprio sul ruolo specifico dei flavonoli.

                      Per realizzare lo studio i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti – età media 81 anni – di completare un questionario sulla dieta quotidiana di ciascuno, compresa la frequenza di consumo di ciascun tipo di alimento. A questo si sono aggiunti test di tipo anche cognitivo per determinare l’insorgenza e lo stadio della malattia nel corso degli anni.

                      Il team di ricerca ha utilizzato le informazioni dietetiche di ogni partecipante per calcolare il consumo medio totale di quattro tipologie di flavonoli in particolare: il Campferolo, che si trova nel cavolo, nei fagioli, nel , negli spinaci e nei broccoli; la Quercetina, presente nei pomodori, nel cavolo, nelle mele e nel ; la Miricetina, anche questa nel tè, oltre che nel vino, nel cavolo, nelle arance e nei pomodori; e l’Isoramnetina, presente nelle pere, nell’olio d’oliva, nel vino e nella salsa di pomodoro.

                      All’interno del campione in esame, il consumo quotidiano di flavonoli tra le persone con la più dieta più povera in questo senso raggiungeva i 5,3 mg, mentre tra le persone con la dieta più virtuosa il livello saliva a 15,3 mg. La ricerca ha osservato che, mentre il morbo è comparso nel 15% delle persone con la dieta più ricca di flavonoli, lo stesso dato sale al 54% per gli anziani con la dieta più povera. Una differenza che i ricercatori hanno potuto confermare anche prendendo in considerazione diversi fattori di rischio per il morbo di Alzheimer, come il diabete, precedenti infarti o ictus, o pressione alta.

                      Di conseguenza, nel periodo di studio, le persone del campione con il più alto consumo di flavonoli hanno avuto il 48% in meno di probabilità di sviluppare l’Alzheimer rispetto a quelli con il consumo più basso. Andando poi nello specifico, i ricercatori hanno osservato che un consumo maggiore di Isoramnetina e Miricetina porta al 38% di probabilità in meno di sviluppare l’Alzheimer, mentre un maggior consumo di Campferolo è legato a un rischio inferiore del 51%. L’assunzione di quercetina, tuttavia, non è sembrato essere un fattore rilevante in quanto a correlazione con la malattia.

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