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                      La lettera: “Può un frutto da 15 cent essere certificato eco-sostenibile?”

                      Riceviamo e pubblichiamo una lettera firmata che ha ad oggetto l’apparente contraddizione tra le offerte di frutta di certi supermercati e le loro certificazioni di tipo etico e ambientale. “Cosa ha di eco-sostenibile una banana venduta a 15 centesimi?”, si legge nella lettera. E ancora: “Le certificazioni di tipo etico e ambientale danno la tranquillità che quel prodotto che sto mettendo nel carrello abbia pagato tutti i costi di produzione, tutelando i diritti dei lavoratori e salvaguardando gli ecosistemi?” C’è infine il tema dei costi delle certificazioni: “Hanno un costo considerevole per le aziende e le filiere che devono fornire il prodotto ma questo costo non viene riconosciuto da chi compra”. Di seguito la lettera integrale

                      Dalla Redazione

                      Banane-frutta-certificazioni-offerta-sostenibilità

                      Banane certificate sul volantino di un gruppo distributivo (rif. primavera 2021)

                      Da qualche anno a questa parte non solo si parla di rispettare l’ambiente ma la parola sostenibilità è entrata prepotentemente in svariati ambiti e fra questo l’alimentare. Sembra che tutto quello che abbiamo comprato fino a ieri, improvvisamente, sia diventato eco-sostenibile. Le etichette delle confezioni hanno acquisito simboli che rimandano all’ambiente e all’eco-sostenibilità del prodotto, indistintamente tutti i generi di consumo sono diventati sostenibili.

                      Ma che cos’ha di eco-sostenibile un volo a 20 euro, una banana a 15 centesimi, una maglietta in cotone a 2 euro? Sono tutte cose che riempiono la nostra vita, che in modo compulsivo compriamo, il mercato ci ha insegnato a sentirci intelligenti quando li compriamo a basso prezzo o magari, ancora meglio, sottocosto.

                      Il tutto sembra essere quel gioco delle sedie, si balla, una sedia viene sottratta e quando la musica viene spenta tutti a correre a sedersi, tutti ad eccezione di colui che perde e resta in piedi perché la sua sedia è la mancante. Questo è quello che succede a obbligare il fornitore a vendere sottocosto: qualcuno resta in piedi ovvero non viene pagato. Qualcuno è costretto a perdere, a rimettere, a rinunciare a qualcosa. Il livello piano piano si abbassa e di lì a poco, quando la musica si fermerà, un’altra persona resterà senza sedia.

                      Un modus operandi che ha lo stesso amaro suono di un gioco già visto: affamare il palazzo per assaltarlo. E in tutto questo che valore hanno le certificazioni? Da consumatore finale non ho evidenza di cosa viene pagato in origine. La ranocchia di Rainforest Alliance, ad esempio, dà la tranquillità che quel prodotto che sto mettendo nel carrello abbia pagato tutti i costi di produzione? Sono sicuro che il diritto di mangiare, studiare, comprarsi un abito sia stato tutelato? E la sicurezza sul lavoro? Chi mi garantisce che sostanze pericolose vengano maneggiate e utilizzate come da manuale? Chi mi garantisce che non venga sfruttato il lavoro minorile?

                      Nulla è esposto in etichetta. Eppure questi processi di certificazione hanno un costo, un costo considerevole per le aziende e le filiere che devono fornire il prodotto. E questo, come tanti altri costi, non viene riconosciuto da chi compra, cioè la distribuzione, o meglio, da chi obbliga il fornitore, con pratiche sleali, celandosi dietro una certificazione, a cedere un prodotto sottocosto.

                      Visto che si paga per avere una certificazione, questi enti certificatori o queste certificazioni sono poi da ritenersi primi attori nello sviluppo dell’abuso della dipendenza economica?

                      Lettera firmata