di Massimiliano Lollis
Mentre il movimento per ridurre l’utilizzo di plastica è sempre più influente e molti consumatori – in base a diversi sondaggi – si dicono favorevoli a voler fare la loro parte per difendere l’ambiente, c’è chi si chiede se tali consumatori siano alla prova dei fatti realmente disposti a pagare di più per un imballaggio senza plastica. Sulla base di questa premessa e adottando un approccio decisamente pragmatico, Ink Research – agenzia marketing specializzata nel retail – ha deciso di cercare di fare luce su questo aspetto.
“Invece che chiedere alla gente semplicemente quanto sarebbe disposta a pagare – scrive su LinkedIn Barry Noble, managing director di Ink Research – abbiamo deciso di seguire un approccio molto più “sottile”. Abbiamo sottoposto al nostro campione di consumatori diverse scelte di acquisto sulle fragole da supermercato. I risultati sono stati poi elaborati dagli esperti di Marquant (azienda di ricerca dati marketing, ndr), che hanno misurato il valore dei diversi parametri come prezzo, fair trade, provenienza e packaging”. I risultati della ricerca – che ha analizzato le scelte di 500 consumatori britannici, mettendo a confronto le scelte reali dei consumatori con le loro affermazioni in questionari diretti – sono decisamente interessanti.
Prima di tutto l’importanza del prodotto locale, inteso come UK sourcing, rispetto a quello plastic-free: secondo la ricerca, tra le due tipologie di prodotti i consumatori sono maggiormente disposti a spendere per il primo. “Il prezzo – si legge – è di gran lunga l’elemento più importante nelle decisioni dei consumatori, e questo è risaputo. Ciò che però sorprende è che il cibo locale possa pesare molto più di qualsiasi altro parametro misurato (incluso il plastic-free o il packaging biodegradabile) in termini di prezzo premium”. E questo a fronte di risposte nei questionari diretti che hanno messo sullo stesso piano l’importanza per prodotti locali con quelli plastic-free. “In media – scrive Noble – i consumatori sono disposti a pagare fino a 82 pence in più per un prodotto di origine locale o più in generale del Regno Unito. Un valore che è oltre il doppio del premium price che sono disposti a spendere per un packaging senza plastica”.
Il packaging senza plastica riveste comunque un’importanza sempre maggiore. “Nel nostro studio – scrive Noble – il prezzo premium assegnato all’assenza di packaging in plastica si è attestato a 39 pence in più rispetto al prezzo standard: un aumento di prezzo non irrisorio, anche se forse non sufficiente a compensare l’investimento richiesto ai retailer e ai produttori per eliminare il packaging in plastica, oltre al fatto che la plastica assicura indubbi vantaggi in quanto a shelf life”. Nella ricerca si è anche preso in considerazione come opzione il packaging totalmente biodegradabile, che pur venendo premiato da molti consumatori, porta ad un aumento nel complesso marginale, attestandosi a 43 pence extra sul prezzo standard. Sembra però che il plastic-free stia guadagnando terreno: non solamente a livello di immagine per le aziende, ma anche in quanto a valore reale per i consumatori”.
Poi c’è la questione dei prodotti bio e fair trade, che pare non vengano particolarmente premiati nel carrello della spesa: “Nonostante l’opinione generale secondo la quale è importante sostenere il settore del fair trade e valga la pena pagare di più gli alimenti bio – spiega -, a conti fatti per questo tipo di prodotti i consumatori sono disposti a spendere solamente dai 12 ai 15 pence in più in media, molto meno di quanto dichiarato inizialmente”.
Cosa ci dice questa ricerca in definitiva? “Per produttori e retailer – scrive Noble – questi dati ci dicono che il packaging plastic-free è un trend da cavalcare: dal guadagno in immagine del brand alla Corporate Social Responsibility (CSR) i vantaggi sono sotto gli occhi di tutti. Ma per il momento ancora non abbiamo certezze sul fatto che il premium price che i consumatori sono disposti a pagare possa giustificare economicamente oggi gli investimenti delle aziende in questa direzione”.
“Per chi invece lavora con i dati di consumo come esperti di marketing e ricercatori – sottolinea – il messaggio è chiaro: quando si trovano di fronte a domande dirette, i consumatori non possono (o non vogliono) svelare in modo accurato il loro comportamento di acquisto. Che siano 500, 3.000 o 1 milione fa poca differenza. Per questo quando analizziamo le abitudini di acquisto dei consumatori – conclude Noble – ci dobbiamo ricordare che non è detto che le loro risposte nei sondaggi rispecchino perfettamente la realtà”. Come dire: tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare.
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