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                      Ecuador: il Covid e la TR4 potranno cambiare, in meglio, il mercato delle banane?

                      Nelle piantagioni di banane dell’Ecuador, il maggior esportatore di banane al mondo, i lavoratori indossano protezioni e viaggiano muniti di disinfettante. Dispositivi certamente utili per il Covid-19 che ha colpito con ferocia il Paese sudamericano, ma non è questa la loro principale funzione. A far paura è anche un’altra malattia: la Tropical Race 4 (TR4), che rappresenta una vera e propria minaccia per un’industria che vale 25 miliardi di dollari. Una malattia delle banane per cui, un po’ come per il Covid-19, non è ancora stata trovata una cura. Come riporta Bloomberg in un lungo articolo del 22 maggio, l’Ecuador e i produttori locali di banane potrebbero però sfruttare il momento per riunirsi ed esigere dai gruppi della grande distribuzione un prezzo più giusto. Un prezzo che ad oggi è stato pagato soprattutto dai braccianti. Resta il fatto che la banana è ancora oggi il frutto più esportato nei Paesi del Nord, ed è ancora molto facile mettere da parte l’attenzione per la salvaguardia dell’ambiente, pur di trovare sullo scaffale delle gustose banane a un buon prezzo

                      di Valentina Bonazza

                      Banane

                      Lavoratori intenti a rimuovere il lattice dalle banane raccolte in una piantagione a Milagro, Ecuador, il 13 maggio (copyright: Vicente Gaibor – Bloomberg)

                      Nelle piantagioni di banane delle pianure tropicali dell’Ecuador, ai lavoratori vengono forniti indumenti protettivi e disinfettanti per i loro attrezzi. Le precauzioni di sicurezza attuate nelle piantagioni che si estendono tra le Ande e la costa del Pacifico non servono però solamente a proteggere i lavoratori dal coronavirus. Servono, soprattutto, a proteggere il prezioso raccolto da un’altra malattia, la Tropical Race 4 (TR4), che rappresenta una vera e propria minaccia per un’industria che vale 25 miliardi di dollari.

                      Il frutto più esportato del pianeta diventa oggi il simbolo di una fragilità di fondo della globalizzazione. A parlarne un articolo di Bloomberg pubblicato il 22 maggio 2020, che spiega la potenziale fragilità di una politica di mercato nata nel XIX secolo e ancora oggi in uso. La banana, che cresce nel Sud del mondo e che viene poi spedita e venduta ai mercati del Nord, è ora un prodotto talmente quotidiano che è facile mettere da parte le conseguenze ambientali, sociali e politiche, pur di trovarlo sugli scaffali dei supermercati. Il modo in cui il mercato della banana si adatta alle circostanze, però, può anche diventare un esempio – sostiene Bloomberg – di un percorso verso la ricostruzione del consenso internazionale nell’era post-pandemica.

                      Proprio come il coronavirus – in assenza di un vaccino – sta cambiando il mondo, così TR4, la tristemente famosa malattia della banana di cui si parla ormai da anni, sta lasciando una scia di piantagioni bruciate in tutto il mondo. Un ceppo noto come Tropical Race 4 (TR4), identificato per la prima volta a Taiwan circa vent’anni fa, dopo essersi diffuso in Asia, in Medio Oriente e in Africa, ha iniziato pochi anni fa a insinuarsi nel cuore delle banane dell’America Latina, a partire dalla Colombia.

                      Secondo la FAO, la TR4 è considerata tra le più distruttive di tutte le malattie delle piante. Le “misure di bio-sicurezza”, compresa la “quarantena in azienda”, sono così raccomandate per mitigarne la diffusione, ma come per Covid-19, non esiste ora alcun trattamento specifico. Una volta che il terreno è contaminato, non c’è speranza di eliminarlo: l’unico rimedio è abbandonare il terreno e trasferirsi altrove.

                      “L’industria stava cominciando ad adattarsi alla minaccia della fusarium e alle misure di bio-sicurezza volte a proteggere le piantagioni. Misure che sono state utilizzate anche nella risposta al coronavirus – spiega Juan José Pons, coordinatore del Banana Cluster dell’Ecuador che comprende le aziende e le associazioni del settore -. Gli 8 mila produttori di banane dell’Ecuador dovranno diventare tutti più produttivi, più efficienti e migliorare ancora i controlli di bio-sicurezza che possano garantire la sostenibilità futura“.

                      In realtà, il commercio delle banane era a un bivio già prima che la TR4 arrivasse in America Latina, che insieme ai Caraibi rappresenta oltre tre quarti delle esportazioni mondiali di banane. Tra tutti il cambiamento climatico, l’impatto ambientale dello sfruttamento intensivo dei terreni e dell’uso di pesticidi su larga scala e il potere di multinazionali e supermercati di dettare i prezzi (leggi qui).

                      Le multinazionali che spingono sul prezzo limitano la capacità dei produttori di rispondere alle preoccupazioni ambientali sull’uso di pesticidi tossici, che inquinano le acque sotterranee. Riducono anche la possibilità di adattarsi ai cambiamenti climatici, i cui effetti si stanno già facendo sentire nei Caraibi. Le isole Windward – ad esempio – hanno subito ripetuti danni causati dagli uragani che hanno colpito la produzione, mentre la Giamaica ha cessato del tutto di esportare banane. “Non si può chiedere a un produttore di aumentare i sistemi di produzione sostenibile o di utilizzare tecniche di produzione più sostenibili se allo stesso tempo si riduce il suo margine – ha sottolineato Pascal Liu, economista senior della FAO e coordinatore del World Banana Forum-. E il loro margine è già quasi nulla”.

                      banane

                      Come maggiore esportatore mondiale – si legge su Bloomberg – l’Ecuador è al centro di questo possibile cambiamento. Il Paese sulla costa del Pacifico dell’America Latina nel 2019 ha esportato nel mondo circa un terzo dei 20 milioni di tonnellate complessive di banane. La frutta è il vero petrolio dell’Ecuador, in quanto vale di più dell’industria petrolifera dopo il crollo dei prezzi del greggio: circa 3,2 miliardi di dollari l’anno scorso, l’equivalente del 3% dell’economia.

                      L’Ecuador è stata però anche la sede di una delle peggiori epidemie di coronavirus dell’America Latina, tanto da aver visto cadaveri sui cigli delle strade del porto di Guayaquil, la più grande città del Paese Sud americano. L’epidemia ha causato difficoltà logistiche nel porto, con carenze di personale e la mancanza di container a temperatura controllata, con conseguenti interruzioni temporanee delle spedizioni. Tuttavia, i lavori nelle piantagioni sono stati poco o per nulla interrotti. Tanto che l’Ecuador ha esportato 135,7 milioni di scatole di banane tra gennaio e aprile di quest’anno, con un aumento del 6,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

                      Questo però non si è tradotto in un elemento positivo per i coltivatori o gli importatori di banane, i cui costi sono aumentati a causa delle difficoltà logistiche e dell’attuazione di misure di sicurezza. Anche i fattori stagionali hanno pesato, facendo scendere i prezzi spot per una scatola da 18 kg (40 libbre) a soli 2 o 3 dollari. “Le nuove misure di sicurezza introdotte per il coronavirus fanno sì che i terminali e le celle frigorifere rimangano pienamente operativi, e i volumi di banane restano stabili”, spiega un portavoce del porto. In Ecuador, tuttavia, fatti concreti non sembrano vedersi a detta di Jorge Acosta, leader del sindacato dei lavoratori delle banane ASTAC di Guayaquil: “Le grandi aziende agricole, o (haciendas) lavorano più o meno normalmente, ma ai piccoli produttori non viene pagato il prezzo ufficiale, quasi impossibile da far rispettare al governo”.

                      Alistair Smith, coordinatore di Banana Link, un gruppo che sostiene i piccoli produttori e lavoratori, sostiene che la pandemia in atto deve portare a rivedere il mondo della produzione dell banane: “In un’epoca di malattie – che si sa essere causate anche dalle monocolture intensive – la dipendenza del commercio di esportazione da un’unica varietà, la Cavendish, solleva scomode domande sulla futura sopravvivenza di questo mercato. L’industria è seriamente preoccupata della propria sostenibilità in ogni sua sfaccettatura: economica, ambientale o sociale – sottolinea Smith -. Riteniamo quindi che il mercato delle banane debba essere rivisto per far si che anche in futuro possa essere una merce d’esportazione capace di soddisfare i mercati del Nord, il tutto a un prezzo basso e prodotto in abbondanza”.

                      E dei segnali incoraggianti stanno iniziando ad arrivare, come ad esempio Carrefour che ha introdotto due nuove varietà, la Pointe d’Or biologica e una banana prodotta senza insetticidi con metodi “agro-ecologici”. Nel frattempo, il ministro tedesco per lo Sviluppo Gerd Mueller ha richiesto che i criteri di sostenibilità siano parte integrante di ogni accordo commerciale che l’Unione Europea sottoscrive. “Solitamente il 13% del prezzo di vendita di una banana va al produttore, mentre per le banane del commercio equo e solidale la percentuale sale al 43% – sostiene McCann della Fyffes –  un prezzo minimo per evitare salari da schiavi nei Paesi produttori”.

                      Per le aziende latinoamericane è questo il momento giusto per riunirsi ed esigere un prezzo più giusto per le banane della regione – dichiara Jorge Acosta, leader del sindacato dei lavoratori del settore bananiero ASTAC di Guayaqui -. L’ASTAC ha proposto che le piantagioni e le aziende riducano la produzione, con gli importatori e i supermercati che devono compensare pagando un tasso più alto. Sto ancora spettando una risposta: nel frattempo i braccianti sono quelli che, come sempre, finiscono per pagare il prezzo maggiore per le crisi delle banane”.

                      Questa crisi però potrebbe essere diversa. “Questa pandemia è un disastro per il mondo. Ma proprio come Covid-19 porterà a nuovi modi di produrre e consumare, così potrebbe stimolare l’industria delle banane a cambiare – afferma Liu della FAO -. Forse gli esseri umani possono iniziare a pensare di agire quotidianamente in modo più sostenibile”. Ne usciremo migliori?

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