di Eugenio Felice
Sono andati lì, in Val di Non, terra simbolo della melicoltura italiana, la terra che ha dato vita al marchio più famoso, Melinda, e hanno prelevato dei campioni di suolo e acqua. Hanno fatto dei prelievi anche in Valtellina (in questo caso il marchio, ben meno conosciuto al grande pubblico, è Melavì). Cinque campioni in tutto, che sono bastati a svelare il segreto di pulcinella: dagli atomizzatori non esce acqua pura ma delle sostanze chimiche che aiutano in modo determinante le piante a far crescere i frutti con le caratteristiche che richiede il mercato. È l’agricoltura convenzionale. Lo sa bene chi scrive, che vive in Valpolicella, terra di grandi vini, con atomizzatori che quasi giornalmente passano filare dopo filare alzando la loro nuvola tossica, con operatori coperti con tute ermetiche come i tecnici del disastro di Fukushima.
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Ci chiediamo cosa troverebbero, i biologhi di Greenpeace, nei suoli e nelle falde che danno il grano che poi si trasforma nella pasta che ci finisce nel piatto. La verità è che oggi si fanno molti meno trattamenti di un tempo, in frutticoltura, soprattutto nel post raccolta, dove sono quasi azzerati, e questo grazie anche a Greenpeace che, soprattutto all’estero, non si fa problemi a prelevare campioni nei supermercati e a dare i risultati con annunci sui principali telegiornali. Sono gli stessi supermercati quindi i driver di questo cambiamento. Sono loro che impongono, in particolare per il prodotto a marchio, frutti e ortaggi con residui sempre più bassi, sia nel numero che nelle quantità. Perché le mele alla fine, di residui, ne hanno molto pochi, in alcuni casi nessuno, comunque quasi sempre entro i limiti di Legge.
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Quindi il problema, come spesso accade – l’ultimo caso è quello sollevato da Le Iene pochi mesi fa – è la disinformazione dei mass media da una parte, e l’incapacità del settore di difendersi e far sentire, a quello stesso grande pubblico, la sua voce dall’altra parte. Esiste Federvino. Esiste Federfarma. Esiste Federalimentare. Dov’è Federfrutta? Chi difende il settore quando è attaccato così pesantemente? Basterà il comunicato di Assomela che uscirà domani (leggi qui), a tre giorni dalla pubblicazione dei dati di Greenpeace? Sarà in grado di uscire dal circolo degli addetti ai lavori e arrivare al grande pubblico? Lo riprenderà la Repubblica che già il 16 giugno scriveva, con riferimento alle mele avvelenate, che “siamo tutti Biancaneve”?
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I mass media hanno fatto un enorme errore, dicendo che a essere contaminate sono le mele, quando in realtà lo sono il suolo e l’acqua dove sono coltivate. Il problema è che il consumatore ragiona per schemi piuttosto semplici e le ripercussioni sui consumi non si faranno attendere. Basta vedere cosa è successo a mirtilli, melograni e goji. Tutte le testate di salute a indicarli come superfood e via, i consumi crescono a doppia cifra. Ne trarrà vantaggio il biologico? Probabilmente sì, anche se la diffidenza del consumatore è alta, a causa dei servizi e delle inchieste sul falso biologico. Come andrà a finire lo scrivevamo su Fm, edizione di gennaio 2014, in un’intervista a Leonhard Lösch di Frulana: “Al fine di salvaguardare la salute dei consumatori e influenzati da movimenti come Greenpeace e Global 2000, le catene distributive ammetteranno sempre meno residui e ridurranno contemporaneamente il numero dei principi attivi ammessi”.
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