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                      Plant based, un comparto da 490 milioni in Italia. Ma è guerra al “meat sounding”

                      Sono 22 milioni i consumatori italiani che scelgono gli alimenti plant based e li portano in tavola con regolarità, confermando un trend di ascesa per il settore, che nel nostro Paese vale quasi mezzo miliardo di euro. Eppure il Governo sembra voler mettere i bastoni fra le ruote all’industria dei prodotti veg: nell’ambito della proposta di legge sugli alimenti sintetici, un emendamento passato al Senato prevede infatti il divieto di utilizzare nomi che fanno riferimento alla carne e ai suoi derivati per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali

                      Dalla Redazione

                      Il Senato della Repubblica ha approvato il 19 luglio scorso un emendamento all’art. 2-bis della proposta di legge sugli alimenti “sintetici” (DDL n. 651, leggi qui) che vieta l’utilizzo di nomi che fanno riferimento alla carne e ai suoi derivati per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali.

                      In particolare, come si legge nel testo della proposta di modifica al ddl, l’emendamento avrebbe lo scopo di “tutelare il patrimonio zootecnico nazionale, riconoscendo il suo elevato valore culturale, socio-economico e ambientale, nonché un adeguato sostegno alla sua valorizzazione, assicurando nel contempo un elevato livello di tutela della salute umana e degli interessi dei cittadini che consumano e il loro diritto all’informazione”. A tal fine, si legge sempre nel testo dell’emendamento, “per la produzione e la commercializzazione sul territorio nazionale di prodotti trasformati contenenti esclusivamente proteine vegetali è vietato l’uso: a) di denominazioni legali, usuali e descrittive, riferite alla carne, a una produzione a base di carne o a prodotti ottenuti in prevalenza da carne; b) riferimenti alle specie animali o gruppi di specie animale o a una morfologia animale o un’anatomia animale; c) terminologie specifiche della macelleria, della salumeria o della pescheria; d) nomi di alimenti di origine animale rappresentativi degli usi commerciali”.

                      In parole povere, il Governo – in particolare la Lega, capofila di questa proposta di legge – mira a contrastare il fenomeno del cosiddetto “meat sounding”, sulla stregua di quanto già visto in Francia, dove con un decreto ufficiale già da ottobre scorso i prodotti a base di proteine vegetali non possono più chiamarsi con le terminologie tipiche dell’industria della carne (leggi qui).

                      Dunque niente più “burger veggie”, “bistecca di tofu”, “bresaola di seitan” e altre terminologie che accostano denominazioni tipiche del mondo delle proteine animali ai prodotti di origine vegetale. L’approvazione di una legislazione che proibisce il “meat sounding” garantirebbe, secondo i promotori del ddl, una maggiore chiarezza nella denominazione dei prodotti alimentari contenenti proteine vegetali, evitando confusioni e fornendo ai consumatori informazioni accurate sulla composizione degli alimenti che acquistano in modo che possano fare scelte consapevoli. “Siamo convinti che chi vende prodotti con etichette ambigue compia una concorrenza sleale – hanno dichiarato il vice presidente del Senato Gian Marco Centinaio e il senatore e capogruppo Lega Commissione Agricoltura Giorgio Maria Bergesio, primi firmatari del disegno di legge -. Anche per questo, con la nuova norma rischierà pesanti sanzioni”.

                      È guerra al plant based? Per alcune associazioni dell’universo veggie questa presa di posizione del Governo è spiazzante, nonché ingiusta, specie perchè associata alla questione del contrasto alla produzione di carne sintetica, che nulla ha a che fare con un’industria altamente controllata e certificata come quella dei cibi veg, “che usa prodotti agricoli alla base della dieta mediterranea, sottolinea Sonia Malaspina, presidente del Gruppo Prodotti a base vegetale di Unione italiana food, come riporta L’Economia del Corriere della Sera. “Il cibo a base vegetale è più sostenibile – continua Malaspina – non capiamo la ragione di questa scelta che rischia di disorientare ulteriormente il consumatore. Pensiamo che ci sia ancora spazio per un ripensamento”.

                      Ripensamento auspicabile anche tenendo conto che quello del plant based è un mercato in forte espansione, in tutto il mondo. I prodotti a base vegetale “non sono più una nicchia – continua la presidente del gruppo prodotti a base vegetale di Unione italiana food, come riporta sempre L’Economia del Corriere – le nostre rilevazioni ci dicono che li sceglie il 43% delle famiglie Italiane. Ormai è un trend inarrestabile. Sembra che i nostri consumatori non sappiano che stanno consumando un burger vegetale, ma dalle nostre ricerche i nostri consumatori sono informati, ci scelgono per questo. Le nostre etichette sono chiare. Il nostro motto è che a tavola c’è posto per tutti”.

                      22 milioni di italiani scelgono il plant based

                      Secondo una ricerca realizzata da AstraRicerche e Gruppo Prodotti a base vegetale di Unione Italiana Food, sono 22 milioni gli italiani che conoscono i prodotti plant-based, 2 su 3 li consuma abitualmente e 1 su 4 li ha introdotti nel proprio regime alimentare su base settimanale. Solo 2 su 10 non li hanno mai consumati.

                      Tra chi li conosce è alto il livello di consapevolezza sulla composizione di questi prodotti, grazie in primis al fatto che il 79,3% legge le etichette (percentuale che sale fino al 92% presso i consumatori più fedeli), si legge su L’Economia del Corriere, che riporta a sua volta la relativa nota di Unionfood. Per i consumatori di plant based, le etichette risultano ‘esplicite e chiare’ per l’80,9%; ‘facili da leggere e comprensibili’ per il 78,3%; ‘veritiere e non fuorvianti’ per il 79,6%. Solo il 6% considera le attuali denominazioni dei prodotti a base vegetali poco chiare.

                      Secondo i numeri del Gruppo Prodotti a base Vegetale di Unionfood, nel 2022 il comparto dei prodotti veg è riuscito a crescere a volume del 2,8% mentre a valore, spinto dall’inflazione, la crescita è stata dell’8%, per un giro d’affari che tocca quota 490 milioni di euro.

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